Il nome di DIO

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Dio ha un nome? Molte persone semplici risponderebbero: Sì, si chiama Dio. Molte altre persone associate a qualche confessione religiosa sarebbero un po’ più specifiche e risponderebbero: Dio si chiama Eterno. Così, infatti, è per lo più scritto nelle traduzioni della Bibbia che usano. Altri – che hanno seguito forse qualche corso biblico e che hanno un po’ di cultura – risponderebbero: Dio si chiama Javèh. C’è poi qualche presunto saputo che addirittura pronuncia “Javèh” con j francese. Qualcuno più preciso potrebbe correggere in “Yavèh”. Ma se la stessa domanda viene posta ad un Testimone di Geova, non avrà dubbi e risponderà sicuro: Il nome di Dio è Geova.
  Per i Testimoni di Geova, infatti, il nome di Dio è un cavallo di battaglia. Ne fanno una questione primaria e ne parlano più di chiunque altro. Nel nostro esame biblico sul nome divino sarà quindi utile esaminare le loro argomentazioni e confrontarle con la Scrittura. In questo studio useremo perciò esclusivamente la versione biblica della Watchtower, la società editrice dei Testimoni di Geova. L’uso di altre versioni sarà invece segnalato.
  Il loro opuscolo intitolato Il nome divino che durerà per sempre (Watchtower, New York, 1984) inizia a pag. 3 con questa domanda posta come titolo: “‘Sia santificato il tuo nome’: Quale nome?”.
  Per avere la risposta giusta, si sa, occorre porre la domanda giusta. Si noti che la domanda dell’opuscolo dà già per scontato che Dio abbia un nome. Infatti, si domanda quale sia. Il ragionamento addotto è semplice: “Tutti gli esseri umani  hanno un nome. Molti danno un nome perfino ai loro animali domestici. Non è ragionevole che anche Dio abbia un nome?” . A prima vista la dichiarazione appare ragionevole. Una persona semplice potrebbe anche essere d’accordo, non riflettendo sul fatto che nella dichiarazione si parla di nomi che gli uomini si danno e che danno anche agli animali. Ma cosa c’entra Dio con gli uomini e con gli animali? Chi vuole farsi guidare dalla Scrittura, anziché leggere la Scrittura con il proprio bagaglio di mentalità occidentale, deve sempre porsi la domanda giusta. In questo caso – riprendendo la domanda posta dall’opuscolo – quella giusta è: “Sia santificato il tuo nome”: Cosa significa? Non va mai dimenticato – ma proprio mai – che Dio ispirò gli scritti della Bibbia a uomini ebrei che scrissero per ebrei in ebraico con il loro modo di pensare ebraico. I lettori ebrei della Bibbia capivano perfettamente il linguaggio biblico. Il loro era un ambiente semita e mediorientale, perciò noi faremmo davvero un grande errore a leggere la Scrittura, a distanza di 2-3000 anni, interpretandola con il nostro moderno modo di pensare occidentale.
  Se vogliamo davvero conoscere e capire, la prima domanda da porci è: Cosa significava il nome presso gli ebrei?


Il valore del nome nella Bibbia  

  Nel linguaggio semitico (che è quello della Bibbia) il nome indica la realtà della persona, l’essere costitutivo, la sua essenza: “Come è il suo nome, così è lui” (1Sam 25:25).
  In Is 30:27 (“Ecco, il nome di Geova viene da lontano, ardente con la sua ira e con gravi nubi”) non si allude a chissà quale etimologia del Nome, fatta risalire a tempi lontani, ma alla persona stessa di Dio. Il nome è la realtà di ciò che il nome evoca, si tratti di Dio, di una persona o di una cosa. Questo è il linguaggio della Bibbia.
  Invocare il nome, è invocare la persona: “Tu stesso sei in mezzo a noi, o Geova, e su di noi è stato invocato il tuo proprio nome” (Ger 14:9). Nella traduzione di questo passo viene perso il parallelismo, così caro agli ebrei, che il testo biblico ha. Ecco l’originale, in cui evidenziamo il primo parallelo e il secondo:

בקרבנו יהוה ושמך עלינו נקרא ואתה
veatàh veqirbènu yhvh veshimchà alènu niqrà
e tu tra di noi Yhvh e nome di te su noi è invocato

Il passo, messo in bell’italiano, suona: “E tu sei tra di noi, Yhvh. E il tuo nome su di noi è invocato”.
  Qui si ha quello che nello stile di composizione è chiamato un chiasmo (dalla lettera greca χ – chi – in cui la prima parte della frase in alto si collega alla seconda parte della frase in basso e la seconda parte della frase in alto si collega alla prima parte della frase in basso). Non si dimentichi che il brano di Geremia è scritto in poesia. Qui il chiasmo è perfetto. Nel secondo dei due paralleli, che iniziano tutti e due con la congiunzione “e”, le parole seguono un ordine inverso rispetto al primo. Lo si noti nello schema:

“E tu sei tra di noi, Yhvh.
χ

E il tuo nome su di noi è invocato”.

  Oltre al chiasmo qui si ha anche una tipica figura ebraica di composizione: la frase del primo parallelo (“Tu sei tra di noi, Yhvh”) è ripetuta con parole diverse nella frase del secondo parallelo (“Il tuo nome su di noi è invocato”). Nel primo parallelo si ha perciò l’identificazione “tu”-“Yhvh”, che nel secondo parallelo assume il sinonimo di “il tuo nome”. In pratica, “il tuo nome” significa “tu”-“Yhvh”. Il nome è la persona stessa.
  Questo concetto ebraico è presente in tutta la Scrittura. Noi (concetto occidentale) diciamo che una persona ha un nome; l’ebreo (concetto biblico) dice che la persona è il suo nome.
  Nella Scrittura il nome indica la natura stessa della persona. La Bibbia dice che “Adamo mise a sua moglie il nome di Eva, perché doveva divenire la madre di tutti i viventi” (Gn 3:20). Il nome ebraico חוה (Chavàh), da cui il nostro “Eva”, significa “vivente”. Già dal primo nome che sia mai stato assegnato da un essere umano ad un altro essere umano si apprende il valore che il nome assume nella Bibbia. “Questa sarà chiamata Donna [אשה (ishàh); “uomo-femmina”; come dire “uoma”, se ci si passa il termine], perché dall’uomo [איש (ish)] questa è stata tratta” (Gn 2:23). Dio cambia il nome ad Abramo: “Il tuo nome dovrà divenire Abraamo [אברהם (avrahàm), “padre di popoli”], perché di sicuro ti farò padre di una folla di nazioni” (Gn 17:5). Il nome indica quindi la natura e il destino di vita della persona. Ad Abraamo Dio dice: “In quanto a Sarai tua moglie, non la devi chiamare col nome di Sarai, perché il suo nome è Sara [שרה (Saràh); “signora”, “principessa”]. E certamente la benedirò” (Gn 17:15,16).
  Così è in tutta la Bibbia, anche nelle Scritture Greche. Un angelo dice a Giuseppe (lo sposo della madre del messia) circa il figlio che lei avrà: “Tu gli dovrai mettere nome Gesù, poiché egli salverà il suo popolo dai loro peccati” (Mt 1:21). Si noti qui non solo l’imposizione del nome, ma la ragione per cui tale nome è imposto: “Poiché egli salverà il suo popolo”. Ma non poteva chiamarsi Beniamino o Amos o Simone e salvare lo stesso il popolo? Per la mentalità occidentale ciò sarebbe stato indifferente. Per la mentalità biblica, no. Perché nel nome c’è il destino della persona. Il nome imposto al messia doveva essere proprio יהושע (Yehoshùa), che significa “Yah salva”. Questo nome sarebbe stato il programma di vita del messia: attraverso di lui Dio avrebbe recato la salvezza. Nel testo greco il nome Yehoshùa è tradotto con Ỉησοῦς (Iesùs), già usato dalla LXX greca per tradurre il nome ebraico “Yehoshùa”, Giosuè, il successore di Mosè.
  Nella Scrittura, quindi, il nome rappresenta l’autentica personalità della persona e, in certo senso, il suo destino o programma di vita.


La conoscenza del nome come potere

  Presso gli ebrei (e, quindi, nella Bibbia) c’era il concetto che conoscendo il nome di qualcuno si poteva esercitare un certo potere su di lui. Ciò appare da subito. Dopo che il primo uomo fu creato, Dio gli fece passare in rassegna tutte le bestie: “Le conduceva all’uomo per vedere come avrebbe chiamato ciascuna; e in qualunque modo l’uomo la chiamasse - ciascun’anima vivente - quello era il suo nome. L’uomo dava dunque i nomi a tutti gli animali domestici e alle creature volatili dei cieli e a ogni bestia selvaggia del campo” (Gn 2:19,20). In questo modo Adamo poneva la sua autorità sugli animali, conformemente al piano divino: “Tenete sottoposti i pesci del mare e le creature volatili dei cieli e ogni creatura vivente che si muove sopra la terra” (Gn 1:28).
  Questo concetto risulta chiaro in Is 43:1, dove Dio dice ad Israele: “Non aver timore, poiché io ti ho ricomprato. [Ti] ho chiamato per nome. Sei mio”. Si noti il parallelismo: “[Ti] ho chiamato per nome” = “sei mio”.
  Israele, orgogliosa della sua appartenenza a Dio, dice: “Ascoltatemi, o isole, e prestate attenzione, gruppi nazionali lontani. Geova [Yhvh] stesso mi ha chiamato fin dal ventre. Dalle parti interiori di mia madre ha menzionato il mio nome” (Is 49:1).
  Proprio perché c’era l’idea che conoscendo il nome di una persona si poteva in certo qual modo padroneggiarla, gli esseri spirituali nascondono il proprio nome. All’angelo che ha lottato con Giacobbe, costui chiede: “Dichiarami, ti prego, il tuo nome”. L’angelo capisce, e controbatte: “Perché domandi il mio nome?”. E non glielo rivela, limitandosi a benedirlo: “E lì lo benedisse”. - Gn 32:29. La donna di Gdc 13:6, che ha ricevuto la visita di un angelo, dice poi che l’angelo non le “ha dichiarato il suo nome”. Quando Manoa domanda il nome di un angelo, questi gli risponde: “Perché devi chiedere del mio nome, quando esso è meraviglioso?” (Gdc 13:18); più che “meraviglioso”, la Bibbia dice פלאי (fèly): “misterioso”. Per i soli due casi in tutta la Bibbia in cui si conosce il nome di un angelo, si veda l’appendice 3 alla fine di questo studio.
  Se degli angeli reagirono così riguardo al proprio nome, come doveva – a maggior ragione – reagire Dio quando Mosè gli domandò il suo nome? Prendendola molto alla larga Mosè disse: “Supponiamo che ora io sia andato dai figli d’Israele e realmente dica loro: ‘L’Iddio dei vostri antenati mi ha mandato a voi’, ed essi realmente mi dicano: ‘Qual è il suo nome?’ Che dirò loro?” (Es 3:13).
  Il momento è cruciale.


Il “nome” di Dio non fu rivelato a Mosè

  Come bisogna intendere il passo di Es 6:2,3? Qui Dio dice a Mosè: “Io sono Geova. E apparivo ad Abraamo, Isacco e Giacobbe come Dio Onnipotente, ma rispetto al mio nome Geova non mi feci conoscere da loro”. È facile per il moderno lettore occidentale applicare i propri schemi mentali e intendere qui che il nome “Geova” non era stato rivelato ai tre patriarchi. Smentiamo subito questa interpretazione, poi cercheremo di capire il passo.
  Abraamo. “Geova gli apparve [ad Abraamo] poi fra i grossi alberi di Mamre, mentre sedeva all’ingresso della tenda verso il caldo del giorno. Quando alzò gli occhi, allora guardò ed ecco, tre uomini stavano in piedi a una certa distanza da lui. Quando li scorse, correva loro incontro dall’ingresso della tenda, e si inchinava a terra. Quindi disse: ‘Geova, se, ora, ho trovato favore ai tuoi occhi, ti prego di non passare senza fermarti dal tuo servitore’” (Gn 18:1-3). Come si vede, Abraamo non solo conosceva il “nome”, ma lo usava.
  Isacco. “[Isacco] disse: ‘Perché ora Geova ci ha dato ampio spazio e ci ha resi fecondi sulla terra’” (Gn 26:22). Cone si vede, anche Isacco conosceva il “nome” e lo usava.
  Giacobbe. In Gn 28:13 Dio dice a Giacobbe: “Io sono Geova l’Iddio di Abraamo tuo padre e l’Iddio di Isacco”.
  È più che evidente che quando Dio dice a Mosè che ‘non si fece conoscere da loro rispetto al suo nome Yhvh’, intende tutt’altro che far conoscere il “nome” in se stesso.
  Abraamo, Isacco e Giacobbe usavano di continuo quel nome. Ma esso stava per essere rivelato sotto un aspetto nuovo e meraviglioso. Non che Dio volesse cambiarsi nome, no davvero. Si trattava di altro.


Conoscere il Nome: cosa significa?

  Dobbiamo ricordare che nella Bibbia il nome indica l’essenza stessa della persona. Dio stava per rivelare se stesso – nel linguaggio biblico, il suo “nome” – in tutta la sua potenza e il suo amore. Gli ebrei avrebbero conosciuto il suo nome, ovvero lui stesso, quando avrebbero visto fino a che punto sarebbe arrivato per far sì che la sua cura per Israele si dispiegasse fino in fondo.
  Gli israeliti stavano per divenire testimoni delle spaventose Dieci Piaghe. Il popolo di Dio stava per essere salvato attraverso il Mar Rosso. Avrebbero poi ricevuto la meravigliosa Legge (toràh, “insegnamento”) divina al monte Sinày, in circostanze tali da farli tremare terrorizzati. In seguito sarebbero stati protetti attraverso il deserto, per essere infine introdotti nella Terra Promessa. - Dt 1:19; Es 6:7,8;14:21-25;19:16-19.
  “Quelli che conoscono il tuo nome confideranno in te, poiché certamente non lascerai quelli che ti cercano” (Sl 9:10).
  Di certo Ez 39:7 non si riferisce alla conoscenza del nome in sé quando Dio vi afferma: “Farò conoscere il mio santo nome in mezzo al mio popolo Israele”. Allo stesso modo, Yeshùa non si riferiva di certo alla conoscenza delle lettere che compongono il nome di Dio quando disse: “Io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere”. Interpretare così, all’occidentale, sarebbe banale. E di certo non biblico. Il senso della sua dichiarazione Yeshùa lo spiega lui stesso aggiungendo: “Affinché l’amore col quale mi hai amato sia in loro e io unito a loro”. - Gv 17:26.


La non risposta di Dio a Mosè

  “‘Qual è il suo nome?’ Che dirò loro?” (Es 3:13). Mosè vuol sapere il nome di Dio. Ma non lo sapeva già? Tutti gli ebrei si erano sempre riferiti a Dio come a Yhvh. Evidentemente Mosè era consapevole che quella formula non era proprio un nome, ma era il modo misterioso con cui ci si doveva riferire a Dio. Ma il suo nome? Vista la confidenza con Dio - di cui Mosè godeva fino al punto che Dio parlava “a Mosè faccia a faccia, proprio come un uomo parlerebbe col suo prossimo” (Es 33:1) - egli osa la domanda. Certo con prudenza, usando un giro di parole e attribuendo la domanda ad altri: “Supponiamo che . . . ed essi realmente mi dicano: ‘Qual è il suo nome?’ Che dirò loro?” (Es 3:13).
  Gli angeli furono riottosi nel rivelare il proprio nome e, di fatto, non lo rivelarono. Come avrebbe risposto Dio?
  “A ciò Dio disse a Mosè:” (v. 13). Si noti molto attentamente, ma davvero molto attentamente. “A ciò”, cioè alla richiesta di Mosè, Dio “disse”. La Bibbia dice che in realtà Dio non rispose alla richiesta di Mosè. Ma “disse” qualcosa. Per tutta risposta, Dio “disse”: “IO MOSTRERÒ D’ESSERE CIÒ CHE MOSTRERÒ D’ESSERE” (v. 14; il maiuscoletto è di TNM).
  Qui occorre fare bene attenzione. Dobbiamo esaminare la frase di Dio nell’originale per comprenderla dovutamente.

אהיה אשר אהיה
ehyèh ashèr ehyèh
sono/sarò [chi] sono/sarò

  Interessante è la nota in calce di TNM a Es 3:14:

“IO MOSTRERÒ D’ESSERE CIÒ CHE MOSTRERÒ D’ESSERE”. Ebr. אהיה אשר אהיה (’Ehyèh ’Ashèr ’Ehyèh), l’espressione con cui Dio chiama se stesso; Leeser: “IO SARÒ QUEL CHE SARÒ”; Rotherham: “Io diverrò qualunque cosa mi piaccia”. Gr. Egò eimi ho on, “Io sono L’Essere”, o “Io sono Colui che esiste”; lat. ego sum qui sum, “Io sono colui che sono”. ’Ehyèh deriva dal verbo ebr. hayàh, “divenire; mostrar d’essere”. Qui ’Ehyèh è all’imperfetto, prima persona sing., e significa “Io diverrò”, o “Io mostrerò d’essere”. Qui non si fa riferimento all’autoesistenza di Dio, ma a ciò che egli ha in mente di divenire nei confronti di altri. Cfr. nt. a Ge 2:4, “Geova”, dove un verbo ebr. affine, ma diverso, hawàh, compare nel nome divino.

  Secondo questa nota, la locuzione divina sarebbe “l’espressione con cui Dio chiama se stesso”. In verità, Dio qui non sta chiamando se stesso: se così fosse i Testimoni di Geova userebbero questo “nome” e non “Geova”. Dio sta invece rispondendo alla domanda di Mosè, ma non per dare il suo nome. Come tutta risposta a Mosè che vuol sapere il suo nome, Dio dice: “Sono chi sono” (traduzione letterale dall’ebraico). Coglie nel segno Rotherham traducendo “Io diverrò qualunque cosa mi piaccia”. In pratica, Dio sta dicendo a Mosè: Domandi il mio nome? Io sarò quel che vorrò. Modo elegante e istruttivo per dire che il suo nome non lo farà sapere. Di fatto – lo si noti – Dio non risponde a Mosè soddisfacendo la sua domanda. Il suo nome non lo dice. Per tutta risposta dice che sarà chi gli pare.
  Secondo la nota, Dio si riferisce “a ciò che egli ha in mente di divenire nei confronti di altri”. Noi crediamo invece che Dio risponda così a Mosè per dirgli che il suo nome non lo dirà. Il contesto, se lo si legge bene, indica proprio questo. Comunque, la frase della nota contiene suo malgrado una verità: nei confronti degli altri Dio sarà semplicemente quel che sarà. (In quanto a ciò che la nota dice su Gn 2:4, lo tratteremo più avanti; ora ci preme finire l’esame del passo di Es).
  Fin qui, quindi, abbiamo che:
  1. Mosè, prendendola alla larga, domanda a Dio il suo nome.   
  2. Dio non glielo rivela, ma per tutta risposta gli dice che sarà chi sarà.    
  Si noti bene ora come prosegue il racconto. Dopo aver detto a Mosè che sarà chi vorrà, Dio aggiunge: “Devi dire questo ai figli d’Israele:” (v. 14). Qui Dio sta per dare una risposta alla preoccupazione di Mosè, che aveva ipotizzato: “Supponiamo che . . . essi realmente mi dicano: ‘Qual è il suo nome?’ Che dirò loro? (v. 13). Dio ora dice a Mosè ciò che deve dire a chi glielo domandasse: “Devi dire questo ai figli d’Israele: IO MOSTRERÒ D’ESSERE mi ha mandato a voi” (v. 14; il maiuscoletto è di TNM).
  In pratica, Dio vuole che Mosè dia al popolo la stessa risposta che lui stesso aveva ricevuto prima da Dio. Ma qui c’è una variante. La prima espressione di Dio (“Io sono chi sono”) qui viene abbreviata: אהיה (ehyèh), “Io sono”.
  È ora il caso di vedere più da vicino questo verbo. La nota di TNM riferisce: “’Ehyèh deriva dal verbo ebr. hayàh, ‘divenire; mostrar d’essere’”. È vero? Sì, ma in parte. E non in questo caso.
  Ci spiace dover ricordare che la Watchtower ha ricevuto nel corso dei decenni molte diffide da parte di editori per citazioni fatte in modo non corretto. Questi editori di opere di consultazione (enciclopedie, vocabolari, dizionari, studi e simili) hanno diffidato la società americana Watchtower dal citare estratti “aggiustati” dalle loro opere. Alcuni hanno perfino vietato tassativamente di essere citati dalla Watchtower. Non son forse corrette le citazioni della Watchtower? Sì che lo sono: le parole vengono riportate parola per parola, alla lettera, tra virgolette. Ma sono citate con furbizia. Sono parziali, isolate dal contesto, traendo solo quelle parole o frasi che avvalorano la tesi presentata dalla Watchtower (questo ovviamente nei casi contestati dagli editori).
  Ora, nella citazione fatta dalla nota (di cui non è riportata neppure la fonte, lo si noti), siamo di fronte ad uno di questi casi. Il semplice lettore che legge la citazione non può che arrivare alla conclusione che il verbo ebraico hayàh significhi quello che è detto: “’Ehyèh deriva dal verbo ebr. hayàh, ‘divenire; mostrar d’essere’” (TNM, nota in calce a Es 3:14). Non è proprio così. Il significato riferito è molto secondario. Il significato principale di hayàh è “essere”. Perché non ci siano dubbi rimandiamo al Dizionario di ebraico e aramaico biblici a cura di J. A. Soggin, uno dei massimi esperti mondiali di ebraico biblico, relativo al verbo ebraico היה (hayàh). Come si nota in tale autorevole dizionario, il significato “divenire” appare solo al quinto posto. Spacciarlo come significato principale non è corretto. In quanto al tempo, la nota ci informa che la forma verbale heyèh (אהיה) “è all’imperfetto, prima persona sing.”. Vero. Ma la conclusione tratta - ovvero che significherebbe “‘Io diverrò’, o ‘Io mostrerò d’essere’” – non è esatta.
  Il significato di “divenire” lo abbiamo già messo in dubbio. Ora mettiamo in dubbio il tempo. L’espressione heyè, e quindi l’intera locuzione ehyèh ashèr ehyèh, può essere tradotta non solo “io sarò”, ma anche “io sono”. Si vedano le seguenti versioni:

CEI “Io sono colui che sono!”

Did “IO SON COLUI CHE SONO”
ND “IO SON COLUI CHE SONO”
Lu “'Io sono quegli che sono'”
NR “Io sono colui che sono”
    
  Questa traduzione è più conforme al contesto. Alla domanda di Mosè su quale sia il nome di Dio, tutto ciò che egli ottiene in risposta da Dio è: “Io sono chi sono”. Dio è chi vuole essere. Così, anche la successiva abbreviazione - heyèh (אהיה) – va intesa: “Io sono”.
  Il racconto biblico prosegue con Dio che ribadisce la risposta che Mosè deve dare al popolo: “Quindi Dio disse ancora una volta a Mosè: ‘Devi dire questo ai figli d’Israele:’” (v. 15). Ora qui c’è tutto il nocciolo della questione, quindi esamineremo molto attentamente il testo biblico.
  Partiamo dalla traduzione che ne fa TNM: “Devi dire questo ai figli d’Israele: ‘Geova l’Iddio dei vostri antenati, l’Iddio di Abraamo, l’Iddio di Isacco e l’Iddio di Giacobbe, mi ha mandato a voi’. Questo è il mio nome a tempo indefinito, e questo è il memoriale di me di generazione in generazione” (v. 15). Qui, in questa traduzione, appare che “Geova” sarebbe il “nome” di Dio. Non dice forse Dio stesso, subito dopo, “questo è il mio nome”?
  Come studiosi, vogliamo sempre andare a fondo. Di enorme importanza, come sempre, è il contesto. E il contesto finora ci ha detto che, alla richiesta di Mosè, Dio dà una risposta che non è la risposta attesa da Mosè. Anziché rivelare il suo nome, Dio dice: “Io sono chi sono”. Non solo. Dio dà anche ordine a Mosè di riferirsi a lui, parlando al popolo ebraico, con l’espressione “Io sono”, che è esattamente la forma precedente abbreviata. Per la seconda volta, Dio dice a Mosè quali sono le parole che deve usare con gli ebrei. Rileggiamolo, ma questa volta riferendosi direttamente anche alla Scrittura, non solo ad una traduzione.
  Riportiamo il testo di TNM, ma sostituendo a “Geova” la parola ebraica presente nella Scrittura:

“Dio disse ancora una volta a Mosè: ‘Devi dire questo ai figli d’Israele: יהוה [yhvh] l’Iddio dei vostri antenati, l’Iddio di Abraamo, l’Iddio di Isacco e l’Iddio di Giacobbe, mi ha mandato a voi’”.
    
  Si noti che, all’inizio del versetto, la frase che introduce le parole di Dio è: “Dio disse ancora una volta a Mosè”. Ciò indica in modo molto chiaro che il concetto era già stato presentato a Mosè. Se vogliamo capire il senso di quel יהוה  (yhvh) dobbiamo paragonare la prima espressione alla seconda.

1a “Devi dire questo ai figli d’Israele: אהיה [ehyèh] mi ha mandato a voi’”.
2a “Dio disse ancora una volta a Mosè: ‘Devi dire questo ai figli d’Israele: יהוה [yhvh] l’Iddio dei vostri antenati, l’Iddio di Abraamo, l’Iddio di Isacco e l’Iddio di Giacobbe, mi ha mandato a voi’”.

  Dio ripete due volte a Mosè ciò che egli deve dire agli ebrei. La seconda volta si notano però due cambiamenti nell’espressione divina. Uno s’individua subito: viene aggiunta la specificazione “l’Iddio dei vostri antenati, l’Iddio di Abraamo, l’Iddio di Isacco e l’Iddio di Giacobbe”. Gli israeliti non devono avere dubbi sull’identità del Dio che incarica Mosè: è il Dio dei loro antenati, il Dio che già conoscono; è sempre lui. La seconda variante sta nella formula “io sono”. Seguiamone l’evoluzione.
  1. Alla domanda di Mosè la risposta di Dio era stata: “Io sono chi sono”.
  2. È di questo “io sono” che Mosè deve poi riferire al popolo: “L’‘io sono’ mi ha mandato a voi”.
  3. Rivolgendosi al popolo Mosè avrebbe poi logicamente dovuto dire “Colui che è”. Ecco la formula finale. Dio rimane per il suo popolo “Colui che è”.
Rivediamolo in italiano:

1a “Devi dire questo ai figli d’Israele: ‘Io sono [אהיה (ehyèh)] mi ha mandato a voi’”.
2a “Dio disse ancora una volta a Mosè: ‘Devi dire questo ai figli d’Israele: Colui che è [יהוה (yhvh)], l’Iddio dei vostri antenati, l’Iddio di Abraamo, l’Iddio di Isacco e l’Iddio di Giacobbe, mi ha mandato a voi’”.
  
  Da notare anche che questa espressione non è un nome proprio. Se lo fosse non potrebbe esserci variazione: si dovrebbe cioè usare sempre la stessa formula. Invece, quando Dio parla di sé dice “io sono”, ma quando sono gli altri a riferirsi a lui devono dire “Colui che è”.     
  Qual è la pronuncia di יהוה (Yhvh)? La questione che porta a “Geova” sta tutta qui. La esamineremo. La forma יהוה (Yhvh) divenne poi nota come “tetragramma”, una parola greca che significa “quattro lettere”.
  Mosè deve aver certo appreso la lezione. Dio può dirgli ora: “Questo è il mio nome a tempo indefinito, e questo è il memoriale di me di generazione in generazione” (v. 15). Mosè voleva sapere il nome di Dio? Si accontenti di questo: Dio è chi vuole essere, egli rimane “Colui che è”.
  Con questo “nome” Dio era stato conosciuto per secoli presso il suo popolo: Così doveva rimanere. Suo malgrado, la Watchtower dice una grande verità quando afferma: “È il nome col quale EGLI ha deciso di essere chiamato” (La Torre di Guardia del 1° giugno 1984, pag. 4; il maiuscoletto è della Watchtower). Anche qui si impone la logica: quel “nome” (Colui che è) era sempre stato usato dagli ebrei prima di allora. L’espressione stessa “colui che è” indica che si doveva ricorrere a questo giro di parole proprio perché non si conosceva il nome di Dio. Il fatto poi che Mosè domandi a Dio il suo nome, dimostra a maggior ragione che “Colui che è” (YHVH) non era il nome. Cosa cambia dopo che Mosè ha domandato a Dio il suo nome? In pratica nulla. Dio ribadisce che devono continuare a chiamarlo “Colui che è” (YHVH, יהוה).
  Dato il forte significato che gli ebrei attribuivano al nome di una persona, trattandosi qui del suo stesso nome, Dio lo protegge. Così, a Mosè che vorrebbe conoscerlo, Dio non fa altro che ribadire il modo con cui era già conosciuto: Yhvh, “Colui che è”. In Es 3:15, nell’attuale testo (il Testo Masoretico) si legge: “Questo è il mio nome a tempo indefinito”, “in eterno” (NR). Abbiamo specificato che si tratta del testo attuale perché la traduzione sopra riportata è stata fatta dal Testo Masoretico, ovvero dal testo vocalizzato dai masoreti alcuni secoli dopo Yeshùa. La parola tradotta con il senso di “per sempre” è nell’ebraico, secondo la vocalizzazione dei masoreti, לעלם (leolàm). Ma nella Bibbia originale tale parola è senza vocali: לעלם (llm). Anziché leolàm è possibile anche vocalizzare in lealèm. Con questa vocalizzazione la frase significa: “Questo è il mio nome perché sia nascosto”. Questo significato appare in perfetta armonia con il contesto. A Mosè che vuole scoprire il nome divino (il più importante che possa esistere nell’universo visibile e invisibile), Dio ribadisce che il suo nome deve rimanere quello con cui Israele lo ha sempre conosciuto: Yhvh, “Colui che è”. E aggiunge che quello è il suo nome, “perché sia nascosto”. Così, quello nascosto, che Mosè avrebbe voluto conoscere, rimane nascosto.  


Il nome che non è un nome diventa il Nome

  Come abbiamo visto, Dio non rivela il suo nome a Mosè. Dio dice a Mosè soltanto che lui è “Colui che è”. Questa formula è tanto precisa quanto insondabile. Dietro quel יהוה (Yhvh), “Colui che è”, c’è il Dio uno e unico, eterno e misterioso.
  Dio non è un uomo o una donna che ha bisogno di distinguersi da altre persone. Ha del blasfemo quanto detto in Impariamo dal grande Insegnante: “Non sono solo le persone ad avere un nome. Pensa ad altre cose che ce l’hanno. Se ti regalano una bambola o un cucciolo, tu gli dai un nome, non è vero?” (cap. 4, pag. 26). Dio non è un oggetto o un animale domestico o un uomo cui si debba dare un nome. È vergognoso che si facciano paragoni simili.
  È biblicamente molto discutibile la seguente affermazione: “L’incomparabile nome di Dio, Geova, serve a distinguerlo da tutti gli altri dèi” (La conoscenza che conduce alla vita eterna, cap. 3, pag. 24, § 6). Gli dèi pagani avevano un nome: dovevano, infatti, essere distinti da altri dèi pagani. Ma da chi dovrebbe mai essere distinto Dio? Da dèi inesistenti? “Non c’è che un solo Dio. Poiché benché ci siano quelli che sono chiamati ‘dèi’, sia in cielo che sulla terra, come ci sono molti ‘dèi’ e molti ‘signori’, effettivamente c’è per noi un solo Dio, il Padre, dal quale sono tutte le cose, e noi per lui”. - 1Cor 8:4-6.
  Agli ebrei era vietato perfino nominare gli dèi: “Non dovete menzionare il nome di altri dèi. Non si dovrebbe udire sulla tua bocca” (Es 23:13). Il Dio unico, il loro Dio, gli ebrei lo chiamavano “Colui che è”, יהוה (Yhvh). Questa formula, che, in effetti, non era un nome (perché Dio non rivelò a Mosè il suo nome), divenne “il Nome” con cui ci si riferiva a Dio. Si spiega così il fatto che nelle Scritture Ebraiche questo “nome” compare quasi 7.000.
  Nella Bibbia, oltre alla forma pura del tetragramma, si riscontrano altri sei aspetti del tetragramma, dati da espressioni composte. Il totale di sette non ci sembra un caso, dato il valore molto simbolico del numero, che indica la completezza e la perfezione. Queste forme composte rivelano il grande amore di Dio nel voler redimere l'essere umano.

1 יהוה
Yhvh “יהוה l’Iddio dei vostri antenati, l’Iddio di Abraamo, l’Iddio di Isacco e l’Iddio di Giacobbe”. - Es 3:15.
2 יהוה  יראה
Yhvh yerèh “Abraamo chiamava quel luogo yhvh yerèh”. - Gn 22:14.
3 יהוה רפאף
Yhvh refà “Io sono yhvh refà”. - Es 15:26.
4 יהוה נסי
Yhvh nisì “Mosè edificava un altare e gli metteva nome yhvh nisì”. - Es 17:15.
5 יהוה שלום
Yhvh shalòm “Gedeone edificò dunque un altare a יהוה, e continua a chiamarsi yhvh shalòm fino a questo giorno”. –-Gdc 6:24.
6 יהוה רעי
Yhvh roì “yhvh roì. Non mi mancherà nulla”. - Sl 23:1
7 יהוה  צדקנו
Yhvh tzidqènu “Israele stesso risiederà al sicuro. E questo è il nome col quale sarà chiamato: yhvh tzidqènu”. - Ger 23:6.

  1. “Colui che è”. È colui che fa “delle tenebre il suo nascondiglio” (Sl 18:11). “Nuvole e fitta oscurità gli sono tutt’intorno” (Sl 97:2). “יהוה stesso disse che doveva risiedere nella fitta oscurità” (1Re 8:12). “Il solo che ha immortalità, che dimora in una luce inaccessibile, che nessuno degli uomini ha visto né può vedere” (1Tm 6:16). Il Dio uno e unico è incomparabile. La sua essenza (e quindi il suo stesso nome) rimane celato e inaccessibile. Per gli esseri umani lui è “Colui che è”.   
  2. “Colui che è provvede”. Letteralmente: “vedrà”, sottintendendo che vedrà il da farsi. Non si tratta qui di un semplice nome che Abraamo dà ad un luogo. La Scrittura aggiunge “Per questo oggi si usa dire: “יהוה יראה [yhvh yeroèh]” (stesso versetto). Mentre la prima forma (יהוה  יראה, YHVH yerèh) significa “Yhvh vedrà”, la seconda (yeroèh) significa: “Si fa vedere”. Non si tratta ovviamente di farsi vedere letteralmente. La LXX traduce: “Sul monte il Signore è stato visto”. Si tratta del monte su cui sarà poi edificato il Tempio, “la casa di hwhy” (1Re 6:1). Dio ha “fatto risiedere là il suo nome” (Esd 6:12). Lo aveva promesso: “Porrò il mio nome in Gerusalemme” (2Re 21:4), “In questa casa e in Gerusalemme, che ho scelto da tutte le tribù d’Israele, porrò il mio nome” (2Re 21:7). È da questo monte che “יהוה יראה [YHVH yeroèh]”, “Dio provvederà”: “Certamente farà per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di piatti ben oliati, un banchetto di [vini] chiariti, di piatti ben oliati pieni di midollo, di [vini] chiariti, filtrati”. - Is 25:6.
  3. “Colui che guarisce”. Dio è colui “che sana tutte le tue malattie” (Sl 103:3). “Nessun residente dirà: ‘Sono malato’. Il popolo che dimora [nel paese] sarà quello perdonato del suo errore” (Is 33:24). “Egli asciugherà ogni lacrima dai loro occhi, e la morte non ci sarà più, né ci sarà più cordoglio né grido né dolore”. - Riv 21:4.
  4. “Colui che è mia asta”. La LXX traduce: “Il Signore è il mio Rifugio”. La parola “asta” (נס, nis) si trova in Nm 21:8: “Fatti una serpe infuocata e mettila su un’asta. E deve avvenire che quando qualcuno è stato morso, deve guardarla e quindi deve rimanere in vita”. Yeshùa applica così questo passo: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così il Figlio dell’uomo dev’essere innalzato” (Gv 3:14). E Pietro spiega che “egli stesso [Yeshùa] portò i nostri peccati nel proprio corpo, sul palo, affinché morissimo ai peccati e vivessimo per la giustizia” (1Pt 2:24). Il “palo di tortura è stoltezza per quelli che periscono, ma per noi che siamo salvati è potenza di Dio”. - 1Cor 1:18.
  5.  “Colui che è pace”. Egli è “l’Iddio che dà pace” (Rm 15:33). “יהוה stesso benedirà il suo popolo con la pace” (Sl 29:11). “I mansueti stessi possederanno la terra, e in realtà proveranno squisito diletto nell’abbondanza della pace”. - Sl 37:11.
  6. “Colui che è il mio pastore”. Dio è il “Pastore d’Israele” (Sl 80:1) e “lo radunerà, e certamente lo custodirà come un pastore custodisce il suo branco” (Ger 31:10). Egli ha anche costituito Yeshùa come “pastore eccellente” (Gv 10:14). Grazie a Yeshùa, le persone che erano “come pecore sviate” sono potute tornale “al pastore”. - 1Pt 2:25.
  7. “Colui che è nostra giustizia”. Dio assicura al suo popolo e a Gerusalemme la giustizia (Ger 33:16). Egli è il Dio di giustizia (Sl 103:6) e tutta la terra sarà retta “con giustizia” (Sl 96:13;97:1; cfr. 98:9). “La sua giustizia dura per sempre” (Sl 111:3; cfr. 2Cor 9:9). “La giustizia di Dio è stata resa manifesta, come rendono testimonianza la Legge e i Profeti; sì, la giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che hanno fede”. - Rm 3:21,22.
  Tutte queste combinazioni del tetragramma divino mostrano la pienezza dell’amore e della misericordia di Dio. “Colui che è”, l’Onnipotente, l’Inaccessibile, si piega con amore prima verso il più piccolo dei popoli, facendolo Suo, poi con Yeshùa si piega verso l’umanità intera. Il suo amore, la sua giustizia e la sua potenza si esprimono sapientemente nel suo operare nella nostra storia.


La pronuncia del tetragramma
    
  Quando fu data la Legge, Dio prescrisse: “Non ti devi servire del nome di Geova [יהוה (Yhvh), “Colui che è”] tuo Dio in modo indegno, poiché Geova [יהוה (Yhvh), “Colui che è”] non lascerà impunito chi si serve del suo nome in modo indegno” (Es 20:7; cfr. Dt 5:11). L’eccessivo scrupolo ebraico portò gli israeliti ad evitare perfino la menzione di quello che era divenuto “il Nome”. Indubbiamente ci fu una cattiva comprensione del comandamento divino. “Si evita di pronunciare il nome YHWH . . . a causa del fatto che si è mal compreso il Terzo Comandamento, ritenendo che significhi ‘non devi nominare il nome di YHWH tuo Dio invano’, mentre in realtà significa ‘non devi giurare falsamente nel nome di YHWH tuo Dio’” (Encyclopaedia Judaica). Quando si iniziò a proibire la pronuncia del tetragramma? “Dal 3° secolo a. E. V. fino al 3° secolo E. V. tale proibizione vigeva ed era in parte osservata”. - A. Marmorstein, The Old Rabbinic Doctrine of God.
  Come si sa, l’ebraico si scrive senza vocali. L’ebreo le aggiungeva a voce leggendo il testo. Con il divieto di pronunciare il tetragramma scomparve la sua pronuncia. Come si leggeva יהוה (Yhvh)? In effetti, non lo sappiamo più.
    Con il passare dei secoli ci fu una novità per ciò che riguarda la lettura e quindi la possibilità di pronuncia delle parole contenute nelle Scritture Ebraiche. Stiamo parlando di alcuni studiosi ebrei, chiamati masoreti (in ebraico baalèh hammasoràh, “maestri della tradizione”), che fra il 6° e il 10° secolo della nostra èra introdussero un sistema di vocalizzazione del testo ebraico che è solo consonantico. Questo sistema previde dei segni, detti diacritici, che venivano messi sopra, sotto o dentro le lettere (per lasciarle intatte, rispettandole), fungendo da vocali e da accenti. Per dare un’idea visiva, riportiamo Gn 1:1 nella versione originale e nella versione vocalizzata.

Gn 1:1
TESTO EBRAICO PURO בראשב ברא אלהים את השמים ואת הארץ
TESTO MASORETICO בְּרֵאשִׁית בָּרָא אֱלֹהִים אֵת הַשָּׁמַיִם וְאֵת הָאָרֶץ
    
  Come si comportarono i masoreti con il tetragramma? Quando lo incontravano – a causa del divieto che si era creato nell’ebraismo di pronunciarlo – escogitarono un modo che perseguisse due obiettivi: 1. lasciarlo intatto, 2. far sì che si leggesse un’altra parola al posto del tetragramma.
  In pratica, non furono inserire le vocali giuste ma quelle del nome che doveva sostituire nella lettura il tetragramma.   
  Fu scelto il nome sostitutivo Adonày, “Signore”. Quando il tetragramma era preceduto, nel testo biblico, da Adonày, le vocali aggiunte erano quelle di Elhoìm per evitare all'ebreo, durante la lettura, di ripetere due volte Adonày. Comunque, normalmente durante la lettura la sostituzione era fatta con Adonày.
 Vediamo in ebraico, con le vocali apposte dai masoreti, come risulta la parola Adonày:

אֲדֹנָי Adonày Signore
   
  Come detto, il tetragramma veniva lasciato intatto. Il lettore, però, incontrando le vocali di Adonaày al posto di quelle giuste per il tetragramma, si ricordava di non leggere il tetragramma. Al suo posto leggeva Adonày.
  Come si nota, le vocali di Adonày sono:


a o a

  La y finale non è una vocale: è la consonante iòd (י, y).
  A questo punto occorre conoscere una regola grammaticale della lingua ebraica.
  Nella parola Adonày in ebraico (אֲדֹנָי) la prima lettera è la consonante muta àlef  (א), che – essendo appunto muta – non si pronuncia. Nella trascrizione italiana non viene trascritta (come nel nostro caso) oppure viene indicata con un apostrofo: ‘Adonày. In effetti, la trascrizione italiana a quale prima lettera di Adonày è la trascrizione della vocale a appartenente alla àlef (א), e non la trascrizione della àlef.
  Ora, dato che il tetragramma (יהוה) non inizia con àlef (א), ma con iòd (י, y), la regola grammaticale non permette il suono chiuso di a . Così, la a  deve essere sostituita dal suono incolore e , che assomiglia alla e francese, che viene appena accennata o a volte non letta. Alcuni, nella trascrizione italiana mettono questa e  come esponente: e.
  Le nuove vocali per il tetragramma diventavano quindi queste:


a o e
ְ
   
  La vocale o non appare in quanto la lettera vav (ו) assume il suono di o. Ed ecco il risultato finale:

יהוה  YHVH יְהוָה YeHoVaH
← → ← →

  Il lettore non ebreo, e solo lui, vedendo il tetragramma con i segni vocalici riportati, legge Yehovàh. Questo errore di lettura cominciò a diffondersi nel 15° secolo della nostra era. Il lettore ebreo, quando leggeva il testo biblico, non commetteva errori perché sapeva di avere davanti agli occhi due parole in una: una tutta consonanti, l'altra evocata dalle vocali. Egli non pronunciava mai Yehovàh (che sarebbe stato un assurdo), ma Adonày.
  La pronuncia Yehovàh era sconosciuta fino al 1520, quando fu introdotta da Galatino. Da allora l’assurda lettura di Yehovàh invece Adonày fu un tipico errore in cui incorsero molti, ovviamente non conoscendo lo stratagemma dei masoreti. Fu anche l’errore in cui incorse il pastore C. T. Russel (da cui poi sarebbero sorti i Testimoni di Geova con la deviazione operata da J. F. Rutherford dopo la di lui morte). Sin dal 1879 Russel ebbe la fissa del “nome”. Ma cadde nell’errore di chi non aveva dimestichezza con la lingua ebraica e con l’analisi del testo biblico.
  L’ebreo dei tempi biblici naturalmente conosceva bene la lettura originale del tetragramma e si accorgeva di trovarsi di fronte ad una parola apparentemente assurda. Era proprio l’assurdità della parola che gli faceva ricordare che doveva dire Adonày. Come se un italiano, tanto per fare un esempio, incontrando la scritta “Dae” si ricordasse di dover leggere “Padre” invece di “Dio”. Sarebbe proprio l’assurdità della parola a ricordarglielo. Si potrebbe obiettare: ma non si farebbe prima a scrivere direttamente “Padre”? Nel nostro esempio senza senso sì. Ma per i masoreti il tetragramma era intoccabile. Non pensarono mai di sostituirlo. Il loro stratagemma lo lasciava intatto e le vocali estranee aggiunte ne celavano la pronuncia vera.
  Una persona non ebrea che sappia appena leggere l’ebraico così com’è e senza tener conto di quanto appena detto, evidentemente - leggendo ad alta voce - leggerà esattamente ciò che trova scritto scritto, cioè Yehovàh.
  Come reagirebbe un ebreo a questa lettura? Se è un ebreo non credente, sentendo una lettura del genere, si metterebbe a ridere. Esattamente come rideremmo noi se qualcuno si ostinasse ipoteticamente a leggere Dae nell’esempio fatto.
  Se però fosse un ebreo ortodosso, si offenderebbe davvero molto, perché vedrebbe storpiato il sacro tetragramma con un suono grottesco.
  Gli studiosi si sono domandati se sia possibile risalire a come si pronunciava il tetragramma prima che fosse stabilita la regola di sostituirlo con Adonày. Gli studiosi hanno cercato di ricostruirne la pronuncia esatta, ma nulla di definitivo è stato ancora raggiunto. Per ora la pronuncia più verosimile appare Yahvèh.
  Questa ipotesi è avvalorata dalla presenza nella Bibbia di decine e decine di passi in cui compare la forma abbreviata Yah (יָהּ). La forma abbreciata Yah (יָהּ) costituisce la prima metà del tetragramma (יהוה, YHWH). Nel testo masoretico questa forma ricorre 49 volte, ed è contrassegnata da un punto (detto mapìik) all’interno nella seconda lettera: יָהּ. Una sola volta appare senza il mappik, in Cant 8:6 (יָה).
  Citiamo alcuni di questi casi:

“Mia forza e potenza è Iah”. – Es 15:2. “Le tribù di Iah”. – Sl 122:4.
“O Iah Dio”. – Sl 68:18. “La fianca di Iah”. – Cant 8:6.
“Loderà Iah”. – Sl 102:18. “Iah, sì, Iah”. – Is 38:11.
    
  In Is 12:2;26:4 appare la formula יָהּ יְהוָה (Yah Yhvh). La forma abbreviata Yah appare anche quattro volte nelle Scritture Greche (Riv 19:1,3,4,6) nella parola Ἁλληλουιά (alleluià).
  Proprio questa ultima parola (“alleluia”, “lodate Yah”) è tra le ragioni che fanno propendere per la lettura Yavèh. La forma ebraica הללויה (haleluyàh) contiene, infatti, nella parte finale l’inizio del tetragramma (יה).
  Si aggiunga il tradizionale ‘Iaße (Iaue) di Teodoreto ed Epifanio. In greco il suono v non esiste, per cui viene sostituito con il suono b (ß). La parola, ricostruita con il suono v ebraico, diventa Iavè.
  Diversi studiosi spiegano Yahvèh come forma grammaticale hiphil del verbo ebraico הוה (havà), “divenire”. Il significato sarebbe quindi quello di “colui che porta all’esistenza, colui che dona vita, creatore”. Questa è anche la scelta fatta dalla Watchtower, che lo rendono con: “Egli fa divenire”. Ma è soltanto un’ipotesi. A noi pare che il contesto di Es – di cui abbiamo ampiamente ragionato più sopra – faccia propendere per il verbo היה (hayàh), “essere”. In tal caso il tetragramma significa: “Colui che è”.


Il terzo comandamento
    
 Sin da piccoli i bambini imparano a memoria al catechismo: “Secondo: Non nominare il nome di Dio invano”.
 Per molti cattolici potrebbe essere una sorpresa sapere che si tratta in effetti del terzo, e non del secondo comandamento (la Chiesa Cattolica ha eliminato il secondo che proibisce l’idolatria e ha diviso in due il decimo). Comunque, vogliamo qui analizzare bene ciò che la Bibbia dice.
  Questo comandamento - che nella Bibbia è riportato due volte (Es 20:7; Dt 5:11) - ha la forma di una proibizione: proibisce di pronunciare il nome divino. Ma come? “Invano”, dicono di solito le versioni bibliche. “In modo indegno”, dice TNM che nella nota in calce spiega: “O, ‘per una falsità’; o, ‘invano’”.
  La notissima forma “invano” è dovuta a Girolamo che così tradusse l’ebraico in latino: “Non adsumes nomen Domini Dei tui in vanum” (Es 20:7, Vulgata). Il significato solitamente attribuito all’espressione è che non si deve pronunciare il nome di Dio per leggerezza o addirittura per bestemmia.
  Noi che vogliamo andare sempre a fondo, guardiamo invece a cosa dice la Bibbia. E scopriamo che dice, letteralmente: “Non solleverai nome di Yhvh Dio di te לַשָּׁוְא [lashàv]”. Se volessimo dirla in linguaggio moderno e popolare, il comandamento intima: Non tirerai in ballo. Ma la nostra attenzione si fissa su quel lashàv. E scopriamo che l’interpretazione “invano” è debole, coinvolgendo solo il nostro modo di parlare. L’espressione ebraica lashàv ha invece un valore forte, significando che non si può invocare il nome divino su ciò che è moralmente cattivo e contrario alla santità di Dio. Nel comandamento è coinvolto anche il modo di vivere e non solo quello di parlare.
  Un’applicazione concreta, ad esempio, che il comandamento ha avuto la troviamo in Lv 19:12: “Non dovete giurare in nome mio su una menzogna, in modo da profanare in effetti il nome del tuo Dio”.
  Sulla stessa linea, la traduzione greca della LXX traduce lashàv (לַשָּׁוְא) con ἐπὶ ματαίῳ (epì matàio): “su ciò che è privo di forza / privo di verità / inutile / di nessuno scopo / vano”. Dopotutto, è anche il senso che gli diede Girolamo: “In vanum” significa “su ciò che è vano / inconsistente”. Girolamo voleva dare un valore forte all’espressione. Infatti, “invano” con il valore di “alla leggera” in latino si dice frustra. L’errore è stato dunque quello di unire in “invano” (avverbio) le due parolette che nella traduzione di Girolamo erano invece separate: “in vanum” (preposizione seguita da un nome).
  L’influenza del comandamento di non pronunciare il nome divino su ciò che è vano fu tanto forte che il giudaismo giunse a sopprimere totalmente la pronuncia del nome divino nonostante che esso, secondo gli stessi testi biblici (Es 3:4;6:2), fosse stato ribadito al popolo nella rivelazione del roveto ardente in vista della liberazione dall’Egitto. Dio aveva tenuto nascosto il suo vero nome a Mosè, ma aveva detto che il popolo doveva chiamarlo col nome, che già conoscevano, di Yhvh (“Colui che è”). Questa proibizione, ai tempi di Yeshùa era già in vigore da secoli. Circa nel 150 E. V. Abba Shaul giunse ad affermare che chi pronuncia il tetragramma non avrà parte al mondo futuro. Così che il lettore sinagogale che incontrava il tetragramma pronunciava al suo posto Adonày (“Signore”) invece di Yhvh. Per aiutare il lettore a pronunciare Adonày, addirittura si vocalizzarono – come abbiamo visto - le quattro consonanti del tetragramma (YHWH) con le vocali di Adonày, e questa strana somma di consonanti di un nome proprio e di vocali di un nome comune diedero e danno il risultato di YeHoVaH , da cui il “Geova” dei Testimoni di Geova, che lo lessero come JeHoVaH all’inglese, con J letta come g dolce (che non ha alcun rapporto con la prima lettera del tetragramma – in ebraico il suono g dolce non esiste neppure). Lo stratagemma ideato dai masoreti per camuffare il tetragramma fu scoperto dagli studiosi solo nel 20° secolo. Da circa il 1500, e per circa 500 anni, si fece l’errore di leggere il tetragramma come YeHoVaH.


Quando avvenne la sostituzione del tetragramma con la forma spuria JeHoVaH?
    
  Di certo sappiamo che ciò avvenne ad opera dei masoreti a partire dal 6° secolo E. V.. Ma costoro non fecero altro che applicare una pratica già datata. Alcune copie più antiche della LXX contengono ancora il tetragramma trascritto nel testo greco con i caratteri paleoebraici, ma la maggior parte dei manoscritti presenta già la sostituzione con la parola greca  κύριος  (kǘrios, “Signore)”. Ciò indica che la pratica era già in atto.
  Ci sono anche indizi che già nel testo biblico si era iniziato a fare qualcosa di simile. Si noti Lv 24:11 e 24:16:

“E il figlio della donna israelita abusava del Nome e invocava su di esso il male”.
“Sia il residente forestiero che il nativo dev’essere messo a morte per aver abusato del Nome”.

  Il testo ebraico ha הַשֵּׁם (hashèm), “il Nome”. L’uso di questa espressione presso gli ebrei è attestata presso la Mishnàh
(cfr. Yoma 3,8;4,1,2;6,2). In questi passi biblici siamo di fronte ad una sostituzione del tetragramma. Esso è presente intatto al v. 12, ma nei due contesti dei versetti citati sopra appare il verbo “abusare”. Evidentemente i soferìm o scribi ritennero troppo ingiurioso abbinare il verbo “abusare” al tetragramma, così lì lo sostituirono con hashèm, “il Nome”.
  La stessa cosa sembra potersi dire di Dn 4:26 dove si trova scritto: “Il tuo regno ti sarà assicurato dopo che avrai conosciuto che i cieli dominano”. “I cieli”, in aramaico  – questa sezione di Dn è scritta in aramaico. Dato che qui si sta parlando ad un pagano, si pensa che il tetragramma sia stato sostituito con “i cieli”.  


Ad errore segue errore  
    
  Abbiamo visto come l’ignoranza dell’uso masoretico abbia portato alla assurda lettura Jehovàh sin dal 1520 della nostra èra. Adottando questa lettura errata, il pastore C. T. Russel, essendo di lingua inglese, peggiorò la già sbagliata parola Jehovàh. Vediamo cosa accadde.
  Il tetragramma (יהוה) inizia con la lettera iòd (י). Questa lettera viene trascritta nell’alfabeto latino (usato anche dagli inglesi) con y oppure j. Quale di queste due lettere è più idonea a traslitterale la iòd (י)? Di regola la j. Ma la j come la usavano i latini. E come si usava anche in italiano prima che la lettera sparisse dal nostro alfabeto. Pochi sanno che – sebbene la lettera j non sia può usata nell’italiano scritto – la sua pronuncia è rimasta. Probabilmente la quasi totalità degli italiani crede che esista in italiano un’unica i. In effetti, nella scrittura, è così. L’italiano non è affatto, però, una lingua che si legge come si scrive, cosa che probabilmente moltissimi italiani credono. In italiano esistono ben tre i, sebbene nella scrittura ne esista una sola. C’è la i muta, che non si legge, come in “chiacchierare” (che diventa chiaccherare nella pronuncia). C’è poi la i della parola “isola”. Ma c’è anche la i della parola “iena”. Se si pronunciano lentamente le parole “isola” e “iena”, indugiando sulla i iniziale, chi non lo sapeva può rimanere stupito nell’accorgersi che si tratta di due i molto diverse nella pronuncia. Ecco, la i di “iena” corrisponde alla j. Nei primi decenni del 1900 Pirandello scriveva ancora jena, come testimoniano i suoi capolavori letterari.
  Di regola, quindi, la iòd (י), prima lettera del tetragramma, andrebbe trascritta con j. Sarebbe quindi più corretto trascrivere il tetragramma così: JHVH. Perché allora qui preferiamo trascriverlo con la y? Per evitare che i semplici facciano l’errore di pronunciare la j con il suono della g dolce di “gente”. In un tempo in cui in Italia non si va più all’autolavaggio ma al “caruòsh”, perché ormai si usa parlare “italese”, ci sembra una precauzione doverosa. Già molte parole latine vengono storpiate, come “summit” e “media”, che vengono lette all’inglese sammit e midia. L’italiano poco istruito che, come diceva una nota canzone, “vo’ fa’ l’ammericano”, riesce perfino a leggere pràivasi la parola inglese “privacy” che ogni suddito di sua Maestà la regina legge giustamente prìvasi. Cosa accadrebbe con la j del tetragramma? Si è già udito qualcuno che con aria da saccente lo ha pronunciato come la j francese!
  Per l’americano Russel fu giocoforza leggere Jehovah come “Gihòva”, facendo anche regredire l’accento. Per lui la j era la “gèi”. La parola italiana “Geova” fu l’imitazione di quella americana, con ulteriore arretramento dell’accento tonico: Gèova.
  Ma la questione è ancora più sottile. Per Russel e i suoi affiliati Jehovah era il nome di Dio che trovavano nelle loro Bibbie americane. Ma non si chiamavano ancora Testimoni di Geova. Così fu per più di cinqunt’anni. Il cambio di nome avvenne nell’agosto del 1931 sotto la presidenza di Rutherford, quando applicarono a se stessi ciò che Dio rivolge invece al suo popolo Israele: “Voi siete i miei testimoni” (Is 43:10). A quel tempo era già stato accertato che Jehovah era la pronuncia sbagliata del tetragramma. Ma Rutherford era esperto di questioni legali, non di scienze bibliche. Leggendo nelle Bibbie di lingua inglese Jehovah, si chiamarono Jehovah’s Witnesses (Testimoni di Geova). Tenuto conto che poi il nome Jehovah divenne un cavallo di battaglia nella loro predicazione, si comprende come ora il tornare indietro sia pressoché impossibile.
  L’unica strada percorribile per chi non vuole riconoscere il proprio errore è solo quella di continuare a giustificarlo. Ecco allora una di queste giustificazioni: “Il nome Geova è estesamente accettato come equivalente del Tetragramma nella vostra lingua” (Svegliatevi! del 22 gennaio 2004, pag. 3).
  Un altro tentativo di giustificazione viene fatto citando documenti in cui compare il nome da loro tanto amato. Un esempio: “Una delle prime Bibbie in italiano ad usare il nome di Geova fu la traduzione di Antonio Brucioli. Nell’edizione stampata a Venezia nel 1551 egli usò in Eso 6:3 la forma ‘Ieova’. Commentando questo stesso versetto, il Brucioli aveva detto: ‘IEOVA è il sacratissimo nome di Iddio’” (TNM, pag. 1563, appendice 1A). Ciò che non viene detto è che nel 1551 non era ancora noto agli studiosi l’errore, oggi ormai accertato, nella trascrizione del tetragramma. Anzi, era appena iniziata la moda di leggere il tetragramma proprio nella forma letterale del Testo Masoretico. La stessa identica cosa vale per la scritta “Ieova” che compare sull’altare della chiesa cattolica di Vezzo, in provincia di Novara. La scritta risale al 1886: neppure allora era noto l’errore di trascrizione del tetragramma.
  Un altro tentativo di giustificazione è il richiamarsi alla pronuncia della parola “Gesù”. Noi siamo tra quelli che rifiutano la pronuncia “Gesù”, preferendo l’originale Yeshùa. Tuttavia, la forma “Gesù” è l’italianizzazione del greco Iesùs. Questo è il nome che compare nei testi originali. A noi non sembra corretto tradurre una traduzione, in quanto Iesùs è già una traduzione (quella greca dell’ebraico Yeshùa). Tuttavia, chi traduce “Gesù” ha pur sempre un appoggio biblico: è la parola del testo greco originale. Ma “Geova” è la traduzione di quale parola greca? Lo ripetiamo ancora: in greco una traduzione del tetragramma non esiste. E non esiste non solo perché non c’è nei manoscritti: non c’è proprio nell’intero vocabolario del greco antico.
  La verità è che “Geova” è la trascrizione errata del sacro tetragramma. Purtroppo, il direttivo dei Testimoni di Geova, che ritiene di offrire ampie prove di appartenere all'unica e vera religione approvata da Dio, e che fa dell’uso del “nome” di Dio una delle fondamentali esigenze della vera religione, non ha molta possibilità di riconoscere che quel nome è la trascrizione errata del sacro tetragramma e che come tale dovrebbe essere rifiutato. Alla fin fine, quel direttivo è prigioniero di se stesso. E nulla vale far loro notare che santificare il nome di Dio usando un nome decisamente errato non è davvero il modo più opportuno di santificarlo.


La prova che la parola “Geova” è errata       
    
  Abbiamo visto come il tetragramma divenne Yehovàh solo nella scrittura, pur essendo letto Adonày. Già il motivo per cui furono inserite nel tetragramma le vocali di Adonày spiega e dimostra in sé che non erano le vocali originali del tetragramma.
  Ma, dato che non conosciamo la pronuncia esatta del tetragramma, non potrebbe essere proprio Yehovàh quella giusta? Assolutamente no. Qualsiasi altra combinazione di vocali potrebbe avere una possibilità, qualche combinazione particolare potrebbe avere perfino una probabilità. Ma Yehovàh non ne ha alcuna, assolutamente nessuna. In modo certo e sicuro. Perché? Perché le vocali di Yehovàh furono inserire proprio per evitare la pronuncia giusta del tetragramma.
  Ne è consapevole la Watchtower? Certo che sì. “Per quanto riguarda il nome di Dio, invece di mettervi i segni vocalici giusti, nella maggioranza dei casi vi misero altri segni vocalici per ricordare al lettore di leggere ’Adhonày. Da ciò derivò la grafia Iehouah, diventata poi ‘Geova’, la tradizionale pronuncia del nome di Dio in italiano” (Il nome divino che durerà per sempre, pag. 8).
  Ma l’uso del nome errato viene giustificato con il seguente argomento: “Dal momento che finora non si conosce con certezza la pronuncia esatta, non sembra che ci sia alcuna ragione per abbandonare la nota forma italiana ‘Geova’ a favore di qualche altra forma suggerita. Se si facesse un cambiamento del genere, per essere coerenti si dovrebbero anche cambiare l’ortografia e la pronuncia di moltissimi altri nomi che ricorrono nelle Scritture: Geremia dovrebbe diventare Yirmeyàh, Isaia Yesha‛yàhu, e Gesù Yehohshùa‛ (in ebraico) o Iesoùs (in greco). Lo scopo delle parole è quello di rappresentare delle idee; in italiano il nome ‘Geova’ identifica il vero Dio, e rende oggi quest’idea meglio di qualunque altro termine” (Perspicacia nello studio delle Scritture Vol. 1, pag. 1025).
  Analizziamo. Si noti la sottile astuzia quando si afferma che del tetragramma “finora non si conosce con certezza la pronuncia esatta” (Ibidem). La dichiarazione è vera, ma con essa si sposta l’attenzione: non viene detto che la pronuncia Jehovàh è sicuramente errata. In pratica, piuttosto che “abbandonare la nota forma italiana ‘Geova’ a favore di qualche altra forma” (Ibidem) è meglio tenersi quella che si ha (e che si sa essere sicuramente errata). Ma la persona riflessiva, che sa come stanno le cose, se va bene a fondo capisce che non si vuole trovare alcuna ragione per abbandonare un nome che è sicuramente sbagliato. Questo ci appare davvero poco corretto.  In quanto al fatto che “Gesù” dovrebbe diventare Yehohshùa, siamo perfettamente d’accordo. Noi lo facciamo, e non usiamo mai la parola “Gesù”, se non nelle citazioni dalle versioni bibliche che lo impiegano, TNM compresa. Infine, ci appare scarsamente biblica l’ultima affermazione: “Lo scopo delle parole è quello di rappresentare delle idee; in italiano il nome ‘Geova’ identifica il vero Dio, e rende oggi quest’idea meglio di qualunque altro termine” (Ibidem). I nomi biblici non rappresentavano “idee”, ma la concretezza della persona. Indubbiamente per i Testimoni di Geova “il nome ‘Geova’ identifica il vero Dio”, ma per la Bibbia il nome “Geova” – quale derivato finale dello spurio Jehovàh – identifica solo il nascondimento del tetragramma. Davvero questo nome illegittimo “identifica il vero Dio, e rende oggi quest’idea meglio di qualunque altro termine”? Noi ci domandiamo se un nome sicuramente sbagliato sia degno di identificare Dio. E ci domandiamo se sia cosa degna da parte nostra usare un nome ibrido e sicuramente sbagliato per identificare Dio.


Un equivoco su cui si gioca
    
  La stragrande maggioranza dei Testimoni di Geova non ha difficoltà a identificare in “Geova” il tetragramma. Essi sono sinceramente convinti che sia la stessa cosa. Si tratta di persone benintenzionate con nessuna o scarsissima competenza in campo biblico. I più istruiti tra loro sanno che non è esattamente così, ma lo accettano lo stesso perché accettano l’argomentazione che il nome “Geova” è quello più noto e che è stato spesso usato. Nessuno di loro riflette sul fatto che da circa il 1500 della nostra èra fino a cavallo tra il 19° e il 20° secolo JeHoVaH era erroneamente stato ritenuto proprio il tetragramma: un occidentale non leggeva forse così nel Testo Masoretico? Solo un centinaio di anni fa gli studiosi hanno scoperto lo stratagemma dei masoreti per non far leggere il vero tetragramma.
  La Watchtower lo sa, e lo riconosce. Ma continua giocare ancora sull’equivoco. Lo si noti: “’Geova’ (ebr. יהוה, YHWH), il nome personale di Dio”. Questa è la prima frase che compare nell’appendice 1A, a pag. 1563, di TNM. Il lettore semplice vede qui la prova che “Geova” corrisponde esattamente al tetragramma. Non è forse indicato addirittura l’originale ebraico?
  Per quanto lo si ripeta e lo si ripeta, non siamo convinti che il comune Testimone di Geova afferri il punto. Ma a noi spetta ribadirlo:

JehoVaH è la forma del tetragramma volutamente camuffata dai masoreti


Come rendere il tetragramma nelle traduzioni della Bibbia?    
    
  Dato che non sappiamo come tradurre con certezza il tetragramma, il traduttore della Scrittura si trova davanti ad un dilemma. Vediamo come è stato affrontato da vari traduttori. Prendiamo ad esempio Gn 2:4, che è il passo biblico in cui per la prima volta compare il tetragramma. La traduzione del tetragramma (יהוה) è stata evidenziata in rosso. Corsivo e maiuscoletto dell’originale sono stati rispettati.

CEI “Queste le origini del cielo e della terra, quando vennero creati. Quando il Signore Dio fece la terra e il cielo”
Diodati “TALI furono le origini del cielo e della terra, quando quelle cose furono create, nel giorno che il Signore Iddio fece la terra e il cielo”
Nuova Diodati “Queste sono le origini dei cieli e della terra quando furono creati, nel giorno che l'Eterno DIO fece la terra e i cieli”
Nuova Riveduta “Queste sono le origini dei cieli e della terra quando furono creati. Nel giorno che Dio il SIGNORE fece la terra e i cieli”
Luzzi “Queste sono le origini dei cieli e della terra quando furono creati, nel giorno che l'Eterno Iddio fece la terra e i cieli”
Parola del Signore “Questo è il racconto delle origini del cielo e della terra quando Dio li creò. Quando Dio, il Signore, fece il cielo e la terra”
Garofalo “Questa è la storia dell’origine del cielo e della terra, quando vennero creati. Nel giorno in cui Jahve Dio fece la terra e il cielo”
TNM “Questa è la storia dei cieli e della terra nel tempo in cui furono creati, nel giorno che Geova Dio fece terra e cielo”
Bible de Jérusalem “Telle fut la genèse du ciel et de la terre, quand ils furent créés. Au temps où Yahvé  Dieu fit la terre et le ciel”
La Sankta Biblio in esperanto “Tia estas la naskiğo de la ĉielo kaj la tero, kiam ili estis kreitaj, kiam Dio la Eternalo faris la teron kaj la ĉielon”
Vulgata Istae generationes caeli et terrae quando creatae sunt in die quo fecit Dominus [“Signore”] Deus caelum et terram.
LXX Αὕτη ἡ βίβλος γενέσεως οὐρανοῦ καὶ γῆς, ὅτε ἐγένετο, ᾗ ἡμέρᾳ ἐποίησεν ὁ θεὸς [theòs (“Dio”)] τὸν οὐρανὸν καὶ τὴν γῆν
    
  La Settanta (LXX) è la traduzione greca delle Scritture Ebraiche. Essa fu iniziata verso il 280 a. E. V.. Questa traduzione seguiva la consuetudine di sostituire il tetragramma con i termini greci κύριος (Kǘrios, “Signore”) o θεὸς (Theòs, “Dio”). Questo almeno stando ai manoscritti che risalgono al 4° e 5° secolo della nostra èra. Di recente, però, sono state scoperte copie più antiche, rotoli in pergamena datati al 1° secolo della nostra èra. Queste – benché frammentarie – hanno rivelato che vi è presente il tetragramma. Non la traduzione del tetragramma, ma il tetragramma in lettere ebraiche antiche, in caratteri paleoebraici. Nella lingua greca, infatti, non esiste né la traslitterazione né tanto meno la traduzione del tetragramma. Il nome “Geova” che si trova nella letteratura biblica della Watchtower in lingua greca appartiene al greco moderno. Nel greco antico (e quindi anche nelle Scritture Greche) la parola non esiste proprio.    Riassumendo i dati dell’indagine fatta sul come i traduttori hanno reso il tetragramma, abbiamo i seguenti nomi sostitutivi utilizzati:

• “Eterno”, a volte specificato con ETERNO, per ricordate che dietro c’è il tetragramma originale
• “Signore”, a volte specificato SIGNORE, per ricordate che dietro c’è il tetragramma originale
• “Yahvè”, “Jahvè”
• “Geova” (TNM)
• “Jeova”, “Ieova”
• κύριος (Kǘrios, “Signore”) oppure θεὸς (Theòs, “Dio”), nelle copie più recenti della LXX
• יהוה, in alcune copie più antiche della LXX
   
  Più interessante ancora è vedere come i primi traduttori delle Scritture Ebraiche in greco si siano trovati di fronte a varie scelte possibili quando si è trattato di tradurre o trascrivere il tetragramma. Eccole:     

▪ riprodurre il “nome” con caratteri dell'alfabeto ebraico quadrato: P. Fuad 266 (LXXP. Fouad Inv. 266), del 1° secolo a. E.
 V., in Dt 18:5     
▪ riprodurlo con caratteri paleoebraici: Sl 91:2 nella Versione di Aquila (Aq) e Sl 69:13,30,31 in quella di Simmaco
 (Sym); entrambe le versioni vengono fatte risalire al 2° secolo E. V.     
▪ abbreviare il tetragramma con l'uso di due yòd con un trattino in mezzo (י-י): P. Ossirinco 1007 di Gn, del 3° secolo E.
  V.
▪ sostituire il tetragramma con le lettere greche IAO (Lv 3:12;4:27 del P. 4QLXXLevb, risalente al 2° secolo a. E. V.    
▪ sostituire il tetragramma col termine kǘrios: P. Chester Beatty (P45,46,47).
   
  Il nostro modestissimo parere è che “Signore” o “SIGNORE” sia una scelta non buona in quanto non fa altro che avvalorare il nascondimento del tetragramma proprio con la parola “Signore” (Adonày), come fecero i masoreti. In quanto a “Eterno” o “ETERNO”, ci sembra che questa parola, per quanto degna, abbia poco a che spartire con il tetragramma. Per ciò che riguarda “Yahvè” o “Jahvè”, ci sembrano meglio dell’errato “Jeova” o “Ieova”, ma non siamo così sicuri che sia la pronuncia giusta, sebbene molto probabilmente lo sia. Del tutto da scartare è la forma “Geova”, in quanto dimostrata sicuramente errata e, oltretutto, offensiva per Dio perché gli attribuisce un nome illegittimo creato ad arte dai masoreti per nascondere la vera pronuncia del tetragramma. Inoltre, gli ebrei non pronunciavano di certo questo nome spurio: sapevano di dover leggere Adonày. Ora, perché mai noi dovremmo essere così sciocchi da leggere alla lettera un nome che nessuno leggeva proprio perché non era un nome vero? Ci rendiamo conto che ciò può urtare la suscettibilità del singolo Testimone di Geova. Per lui “Geova” è il vero Dio con cui pensa di avere un’intima relazione. Tuttavia, anche la povera vecchietta di paese che si rivolge alla statua della Madonnina con piena fiducia ha una fede (seppure a modo suo), e – per quanto errata - nessuno dovrebbe osare di offenderla. Forse anche qualche Testimone di Geova aveva prima una simile fede nella Madonna. E forse la sua sensibilità fu scossa quando apprese che si trattava solo di una statua e che la madre di Yeshùa è semplicemente morta e nulla più sa di ciò che avviene sulla terra ne potrebbe saperlo. Allo stesso modo potrebbe rimanere turbato apprendendo la falsità del nome “Geova”.  Come rendere allora il tetragramma nelle traduzioni? Non abbiamo certo la pretesa di indicare una strada sicura ai traduttori. Sappiamo però come non va reso, e le ragioni le abbiamo esposte. Ci sembra poi di individuare nel metodo seguito dalla LXX in origine un modo corretto: lasciare il tetragramma così com’è. Nelle traduzioni italiane potrebbe essere traslitterato in lettere latine: Yhvh. E come dovrebbe essere letto? Un’indicazione forse ci viene dagli ebrei. E non si tratta di leggere Adonày. Gli ebrei devoti leggono hashèm (השם), “il Nome”.


La pronuncia del tetragramma al tempo di Yeshùa     

  Si legge ne La Torre di Guardia del 1° novembre 1993: “I discepoli di Gesù usavano il nome di Dio (di solito reso in italiano con ‘Geova’ o ‘Yahweh’)? Ci sono validi motivi per ritenere che lo usassero. Gesù insegnò ai suoi seguaci a pregare Dio dicendo: ‘Sia santificato il tuo nome’. (Matteo 6:9) E alla fine del suo ministero terreno egli stesso disse in preghiera al suo Padre celeste: ‘Ho reso manifesto il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo’. (Giovanni 17:6)” (pag. 30). Non possiamo fare a meno di notare l’astuzia dell’impostazione. La domanda è se i discepoli di Yeshùa usavano il “nome” di Dio. Domanda molto interessante e più che legittima per chi non conoscere gli usi e i costumi dei tempi biblici. Ma si noti l’astuto abbinamento, messo tra parentesi: “(di solito reso in italiano con ‘Geova’ o ‘Yahweh’)”. Doppiamente astuto. Il “nome di Dio” è il tetragramma, e su questo non ci piove. Ma questo tetragramma diventa subito ciò che è “di solito reso”. C’è un baratro tra il tetragramma e come esso viene reso, ma qui il baratro sparisce per identificare il tetragramma con ciò con cui è reso. L’altro aspetto, sottile, sta nel fatto di abbinare “Geova” a “Yahweh”. Quest’ultimo termine, lo sappiamo, è quello che più probabilmente può rendere il tetragramma. Abbinandolo a “Geova” si legittima anche questo. Il fatto è che Yahvèh è molto probabilmente la pronuncia giusta, mente “Geova” è con la massima certezza quella errata. Ma l’aspetto più grave sta nel prendere la parola “nome” alla lettera (tipico errore della mentalità occidentale). Nella Bibbia il “nome” non è il nome in se stesso. “Sia santificato il tuo nome”, non significa santificare il nome come tale (lettura occidentale), ma santificare Dio che è la realtà dietro la concretezza che gli ebrei attribuivano al nome. Così, “Ho reso manifesto il tuo nome agli uomini” non significa affatto che Yeshùa facesse conoscere in giro il “nome” di Dio o la sua pronuncia. Questo è un modo di leggere la Bibbia all’occidentale, che non ha senso. Gli uomini e le donne cui Yeshùa aveva predicato erano giudei: il tetragramma lo conoscevano, eccome. Ci sia scusato il paragone molto profano, ma è come se oggi andassimo in giro a far conoscere alle persone il nome e cognome del sovrano di un ipotetico regno in cui viviamo. Saremmo derisi. Altra cosa se andassimo in giro a far conoscere le gesta, il valore e le qualità del sovrano. Ecco, è in quest’ultimo senso che Yeshùa fece conoscere il “nome” di Dio. Quando il salmista promette: “Sicuramente dichiarerò il tuo nome ai miei fratelli”, non allude di certo al fatto che andrà in giro ripetendo il tetragramma (che tra l’altro conoscevano bene quanto lui), ma allude alla lode, come si arguisce dall’emistico parallelo: “In mezzo alla congregazione ti loderò” (Sl 22:22). Qui il parallelo è “nome”-“ti”: “nome” è sinonimo di “ti”, ovvero “te” ovvero Dio. Ogni volta che la letteratura della Watchtower riporta dati su dati circa ritrovamenti storici e archeologici che hanno a che fare con il tetragramma, scopre l’acqua calda. Il tetragramma è una realtà documenta. Fa parte della Bibbia! Però, in queste citazioni viene sempre ricordato che si tratta del “nome di Dio”. E qui si gioca sull’equivoco, perché i lettori Testimoni di Geova capiscono “Geova”. Nessuno dice loro che il tetragramma non ha nulla a che fare con la parola “Geova”, se non per l’eclatante errore in cui caddero i lettori occidentali. Di Yeshùa è detto: “Quando nella sinagoga di Nazaret Gesù si alzò e, ricevuto il libro di Isaia, lesse Isaia 61:1, 2 dove c’è il Tetragramma, pronunciò il nome divino” (Traduzione del Nuovo Mondo delle Sacre Scritture con riferimenti, pag. 1566, appendice 1D). Ci si riferisce qui a Lc 4:16-22: “E venne a Nazaret, dov’era stato allevato; e, secondo la sua abitudine, entrò in giorno di sabato nella sinagoga, e si alzò per leggere. 17 E gli fu consegnato il rotolo del profeta Isaia, ed egli, aperto il rotolo, trovò il luogo dov’era scritto: 18 “Lo spirito di Geova è su di me, perché egli mi ha unto per dichiarare la buona notizia ai poveri, mi ha mandato per predicare la liberazione ai prigionieri e il ricupero della vista ai ciechi, per mettere in libertà gli oppressi, 19 per predicare l’anno accettevole di Geova”. 20 Quindi avvolse il rotolo, lo riconsegnò al servitore e si mise a sedere; e gli occhi di tutti nella sinagoga erano fissi su di lui. 21 Quindi cominciò a dir loro: “Oggi questa scrittura che avete appena udito si è adempiuta”. 22 E tutti davano di lui testimonianza favorevole e si meravigliavano delle avvincenti parole che uscivano dalla sua bocca, e dicevano: “Non è questo un figlio di Giuseppe?” Davvero Yeshùa pronunciò il tetragramma? Il testo biblico non lo dice, ma ci sono indizi - sia contestuali che storici che biblici – che ci fanno dire di no.      
  Vediamo prima gli storici. Nella sinagoga di Nazaret il rotolo di Is doveva essere in ebraico. Che mai ci sarebbe stata a fare una versione greca? La LXX era stata fatta per gli ebrei della diaspora. I giudei palestinesi non avevano motivo di usarla. Possiamo essere certi che il tetragramma ebraico fu in quella occasione sotto gli occhi di Yeshùa. Da questo a dire che lo pronunciò, però ce ne corre.      Si era, infatti, già da un paio di secoli (come minimo) nel periodo di drastica proibizione di pronunciare il tetragramma. In verità, qualcuno lo pronunciava ancora. Era il sommo sacerdote. Inoltre, la pronuncia del tetragramma era consentita solo nel Tempio, probabilmente perché esso era il posto che Dio aveva scelto “per porvi il suo nome” (Dt 12:5; cfr. 14:23). Il tetragramma era pronunciato solo dal sommo sacerdote nel Giorno dell’Espiazione (yòm kippùr), quando recitava le tre confessioni di peccato. Secondo alcuni testi, in quel giorno il tetragramma veniva pronunciato dal sommo sacerdote 4 volte, secondo altri testi 10 volte. Il coro dei sacerdoti rispondeva ogni volta cantando il responsorio: “Benedetto sia il Nome [hashèm] del suo Regno glorioso di eternità in eternità”.      
  La limitazione così drastica e radicale della pronuncia del tetragramma aveva avuto come prima conseguenza che andò perduto il ricordo della vocalizzazione di YHWH e della sua precisa pronuncia. Lo fanno pensare i testi rabbinici del 1° secolo che parlano di difficoltà a poter udire o ricordare il suono pronunciato nello yòm kippùr dal sommo sacerdote.
  Un primo testo dice: “Coloro che stavano vicini [al sommo sacerdote] cadevano faccia a terra [dopo la pronuncia del tetragramma]; quelli lontani gridavano: ‘Sia lodato il Nome [hashèm]!’. Ma tanto gli uni come gli altri, appena se ne andavano, ecco: non ricordavano più”. Un secondo testo rabbinico dice: “Precedentemente il sommo sacerdote pronunciava il Nome ad alta voce, ma quando aumentò il numero degli insolenti, il sacerdote cominciò a pronunciarlo a voce sommessa”. Si possono citare infine le parole di Rabbi Tarfon (1° secolo E. V., il secolo in cui visse Yeshùa) che diceva: “Io ero nella fila tra i miei fratelli, i sacerdoti, e ho teso l’orecchio verso il sommo sacerdote per udire il nome e ho udito come il sommo sacerdote ha lasciato che fosse ricoperto dal canto dei sacerdoti”.      
  Yeshùa non era sommo sacerdote, non era neppure sacerdote, e non avrebbe potuto esserlo: era della tribù di Giuda, non di quella sacerdotale di Levi. Tra l’altro il sommo sacerdote era della classe levitica di Aaronne. Yeshùa non aveva nulla a che dare con la classe sacerdotale. Yeshùa sarebbe divenuto “sommo sacerdote alla maniera di Melchisedec” (Eb 5:10), ma solo dopo la sua resurrezione. Se i giudei stessi – sommo sacerdote a parte – non conoscevano più la pronuncia del tetragramma, la stessa cosa valeva per Yeshùa. Si potrebbe obiettare che egli aveva una sapienza tutta particolare. Vero. Si può ammettere anche che conoscesse la pronuncia del tetragramma, ma da questo a dire che lo pronunciasse ce ne corre ancora. Le circostanze storiche lo impedivano.      
  Vediamo ora gli indizi contestuali. Il nostro passo, al v. 22, dice che quando Yeshùa si rimise a sedere dopo aver letto il passo di Is, “tutti davano di lui testimonianza favorevole”. Ora, se avesse pronunciato il tetragramma, con tutta probabilità sarebbe stato condotto subito fuori e lapidato sul posto. Ma nessuno si lamentò o ebbe da ridire, anzi “si meravigliavano delle avvincenti parole che uscivano dalla sua bocca” (v. 22).      
  Infine abbiamo gli indizi biblici. Un’altra conseguenza del divieto di pronunciare il tetragramma fu che si dovette creare tutto un sistema di nomi e di circonlocuzioni che consentissero di parlare di Dio o di alludere a lui senza nominarlo.      
  Yeshùa si attenne a questo sistema usato dai giudei? Sì. L’argomento è così importante (oltre che interessante) che lo trattiamo qui di seguito.


I sostitutivi del tetragramma usati dai giudei e da Yeshùa    
 
  Al tempo di Yeshùa – lo sappiamo già – era ormai in vigore in Israele da alcuni secoli l’uso di non leggere il tetragramma. I giudei si erano perciò abituati a riferirsi a Dio in alcuni modi caratteristici e particolari. Questi modi includevano espressioni particolari o un uso particolare dei verbi.
   
  Nomi. I nomi sostitutivi del tetragramma più frequenti erano:  
  
● Hashamàym, “il Cielo”, “i Cieli”    
● Hamaqòm, “il Luogo”   
● “Il Trono”     
● “Il Nome”   
● “Il Santo”   
● “Signore”  
● “Re”; “Gran Re”    
● “Padre che sei nei cieli”     
● “Colui che”     
● “La Potenza”   
● “Alto”.     

  Questa è solo una lista esemplificativa. Le espressioni usate erano molte di più. Yeshùa si attenne a questo sistema usato dai giudei? Sì. Si pensi solo al fatto che Yeshùa fa dire al figlio prodigo: “Ho peccato contro il cielo” (Lc 15:18,21). Vediamo altri passi:

“Il battesimo di Giovanni di dov’era? Dal cielo o dagli uomini?”. – Mt 21:25.
“Ti lodo pubblicamente, Padre, Signore del cielo e della terra”. – Mt 11:25.
“Chi giura per il cielo giura per il trono di Dio e per colui che vi siede sopra”. – Mt 23:22.
“A meno che uno non nasca di nuovo” (Gv 3:3; testo greco: “generato dall’alto”).
“Voi vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della potenza”. – Mr 14:62.
“Non giurate . . . per Gerusalemme, perché è la città del gran Re”. – Mt 5:34,35.
“Il regno dei cieli si è avvicinato”. – Mt 4:17.

  Questi sono solo alcuni passi che riportiamo a mo’ d’esempio. Ne aggiungiamo però uno: “Padre nostro [che sei] nei cieli, sia santificato il tuo nome” (Mt 6:9). Questo è proprio il passo con cui abbiamo introdotto questo studio. Anzi, riproponiamo l’argomento, perché ora si può valutare meglio. La pubblicazione Il nome divino che durerà per sempre (Watchtower, New York, 1984) inizia a pag. 3 con la domanda: “‘Sia santificato il tuo nome’: Quale nome?”. Ora si può comprendere come quella domanda sia non solo fuori luogo, ma come denunci una scarsa conoscenza del modo ebraico di esprimersi presente della Bibbia.      
  D'altra parte, ‘santificare il suo nome’ non significa certo santificare un particolare termine o un'espressione, infatti come si potrebbe 'santificare una parola' o 'santificare un titolo'? Piuttosto, quella espressione significa riconoscere la santità della Persona stessa, parlare con riverenza ed ammirazione di Lui e delle Sue qualità e delle Sue azioni, stimarLo e riverirLo come Santo in modo superlativo.      
  Per ciò che riguarda i nomi sostitutivi del tetragramma ci fermiamo qui, ma la lista sarebbe lunga. Ogni lettore delle Scritture Greche, quando troverà una di queste espressioni, ora sa che costituiscono il modo giudaico (e Yeshùa era un giudeo) per evitare il tetragramma.  
  
  Uso dei verbi. Il tetragramma divino è poi talvolta sostituito da un participio o da una perifrasi verbale. Così Yeshùa dice: “Chiunque riceve me riceve [anche] colui che mi ha mandato” (Lc 9:48). Adattandosi all’uso giudaico del tempo, Yeshùa si riferisce a Dio come a “Colui che” fa qualcosa. “Temete piuttosto colui che può distruggere sia l’anima che il corpo nella Geenna” (Mt 10:28). “Chi giura per il tempio giura per esso e per colui che vi abita, e chi giura per il cielo giura per il trono di Dio e per colui che vi siede sopra” (Mt 23:21,22).
  Ci sono altre due forme verbali sostitutive del tetragramma. Nel primo caso, invece di mettere il tetragramma divino, gli evangelisti omettono il soggetto della frase e mettono il verbo al plurale. Questa procedura risulta del tutto sconosciuta a chi non conosce bene la Bibbia. Il motivo è che il verbo al plurale che si trova nei testi originali suona male al nostro orecchio. Nelle traduzioni correnti si preferisce quindi evitarlo, sostituendolo con il passivo impersonale. Qualche esempio chiarirà il punto. In Lc 6:38 Yeshùa dice (stando alla traduzione): “Vi sarà versata in grembo una misura eccellente, pigiata, scossa e traboccante”. Si noti il passivo impersonale: “Vi sarà data”. In realtà Yeshùa si espresse diversamente. Ecco il testo originale: δώσουσιν (dòsusin), “daranno”. Il Lc 12:20 viene mantenuto il verbo al plurale, perché anche nella traduzione italiana suona bene; Yeshùa dice “Irragionevole, questa notte ti chiederanno la tua anima”. Chi richiede la vita dello stolto è indubbiamente Dio. Yeshùa, secondo l’uso dei giudei, evita la menzione di Dio e usa il verbo al plurale: “Ti chiederanno”.     
  Il passo di Lc 16:9 appare alquanto oscuro in TNM: “Fatevi degli amici per mezzo delle ricchezze ingiuste, affinché, quando queste verranno meno, essi vi ricevano nelle dimore eterne”. La prima parte è chiara: Yeshùa consiglia di farsi degli amici usando bene il proprio denaro; le “ricchezze ingiuste” non sono altro che i beni accumulati in questo mondo: non sono ingiuste perché ottenute illegalmente, ma solo perché di questo mondo. Il problema è nella traduzione della seconda parte: “Essi vi ricevano nelle dimore eterne”. Così tradotto, “essi” non può che riferirsi agli “amici” precedenti. Ci domandiamo come sia mai possibile che tali persone, diventate amiche grazie alle ricchezze condivise con loro, possano avere la facoltà di accogliere chi ha agito accortamente con loro “nelle dimore eterne”. Può darsi che essi stessi non entrino “nelle dimore eterne”, ma – anche se ci entrassero – che potere avrebbero mai di accogliere lo scaltro che se li è fatti amici? La spiegazione che gli editori di TNM appare alquanto contorta: “Dovremmo avere l’obiettivo di usare le ‘ricchezze ingiuste’ per farci amici i Proprietari delle ‘dimore eterne’. Essendo il Creatore, Geova possiede ogni cosa, e il suo Figlio primogenito partecipa a tale proprietà quale Erede di tutte le cose . . . Per diventare loro amici, dobbiamo usare le ricchezze in un modo che abbia la loro approvazione” (La Torre di Guardia del 1° gennaio 1992, 13, § 19). Ma come poteva Yeshùa includersi fra “i Proprietari delle ‘dimore eterne’” se ancora non aveva mostrato la sua fedeltà fino alla morte e ancora non era stato costituito “erede di tutte le cose” (Eb 1:2)? Da buoni studiosi preferiamo sempre riferirci alla Scrittura prima di accampare ipotesi. Il contesto del passo (vv. 1-8) riporta la parabola di Yeshùa su un tale che manipolando la contabilità del suo padrone si fa amici alcuni debitori falsificando i libri contabili così da diminuire l’importo dei loro debiti. Il suo scopo è chiarito: “Quando sarò cacciato dalla gestione, mi ricevano nelle loro case [quelle dei debitori avvantaggiati]” (v. 4). La morale della parabola sta nel finale: “Il suo signore lodò l’economo, benché ingiusto, perché aveva agito con saggezza” (v. 8). Qui non si giustifica affatto il falso in bilancio, ma si pone l’attenzione sull’avvedutezza dell’economo furbacchione. Yeshùa fa questa applicazione della sua stessa parabola: “I figli di questo sistema di cose, nei loro rapporti con quelli della propria generazione, sono più saggi dei figli della luce” (v. 8). “Saggi” non è proprio la parola giusta: Yeshùa parla di φρονιμώτεροι (fronimòteroi), “attenti ai propri interessi”. Comunque, si parla di “rapporti con quelli della propria generazione”. Yeshùa sta parlando di cose quotidiane, della vita di tutti i giorni. Quando nell’applicazione finale della parabola consiglia di ‘farsi degli amici per mezzo delle ricchezze ingiuste’ (v. 9), è semplicemente ovvio che sta suggerendo di intrattenere relazioni buone con il prossimo. Ma Yeshùa va oltre: “Se non vi siete mostrati fedeli riguardo alle ricchezze ingiuste, chi vi affiderà quelle vere?” (v. 11). Come dire: se non avete saputo usare bene le ricchezze materiali, chi vi affiderà quelle vere? Yeshùa allude all’al di là. “Non potete essere schiavi di Dio e della Ricchezza” (v. 13). Occorre scegliere: o si usano bene le ricchezze materiali, condividendole, oppure si rimane schiavi di esse rinunciando a sottomettersi a Dio. È in questo contesto che Yeshùa dichiara:
                                                                                                               ἵνα     δέξωνται    ὑμᾶς   εἰς τὰς  αἰωνίους σκηνάς
                                                             ìna     dècsontai   ümàs  èis  tas   aionìus   skenàs
                                                        affinché  accolgano   voi    in    le     eterne     tende

  Siamo qui di fronte proprio ad uno di quei casi in cui per nominare Dio evitando il tetragramma si usa il verbo al plurale senza soggetto. Come abbiamo già osservato, nelle traduzioni italiane ciò si rende con il passivo. Se volessimo renderlo in italiano lasciando intatto il senso, avremmo: “Affinché vi si riceva nelle dimore eterne”.      
  Un altro modo usato dai giudei per evitare la menzione di Dio è quello che potremmo chiamare il “passivo divino”. Dato il grandissimo rispetto che gli ebrei avevano per Dio, evitavano perfino di nominarlo. Ancora oggi, se capita di leggere la saggistica di ebrei molto ortodossi tradotta in italiano, si troverà spesso questa forma: “D-o”. Non osano neppure scrivere “Dio”! I giudei del tempo di Yeshùa usavano la parola “Dio”, e Yeshùa stesso la usò, sebbene mai il tetragramma. Ma ogni volta che potevano, lo evitavano. Le nostre traduzioni delle Scritture Greche di solito conservano il “passivo divino”. Si veda Mt 5:4: “Felici quelli che fanno cordoglio, poiché saranno confortati”. Qui il passivo “saranno consolati” significa “Dio li consolerà”.      
  Questo tipo di passivo, in sostituzione della menzione di Dio, nei soli quattro vangeli ricorre un centinaio di volte. Il lettore occidentale che ha scarsa o nessuna conoscenza di cultura biblica, non se ne accorge neppure. “Felici i misericordiosi, poiché sarà loro mostrata misericordia” (Mt 5:7): Dio sarà misericordioso con loro. “Col giudizio col quale giudicate, sarete giudicati” (Mt 7:2): Dio vi giudicherà. “Continuate a chiedere, e vi sarà dato” (Mt 7:7): Dio vi darà.      
  Questo era il normale modo di esprimersi di Yeshùa, che era poi quello di tutti i giudei del suo tempo. Sebbene Yeshùa contestasse diverse tradizioni sbagliate che i giudei avevano, su questo non solo non ebbe da ridire ma lo adottò lui pure.      
  Si noti Mr 2:5-7: “Quando Gesù vide la loro fede disse al paralitico: ‘Figlio, i tuoi peccati ti sono perdonati’. Ora erano là seduti degli scribi, che ragionavano nei loro cuori: ‘Perché costui parla in questa maniera? Egli bestemmia. Chi può perdonare i peccati se non uno solo, Dio?’”. Qui Yeshùa rende noto al paralitico che Dio lo perdona. Può farlo perché “il Figlio dell’uomo ha autorità di perdonare i peccati sulla terra” (v. 10), ma è sempre Dio che concede il perdono. Yeshùa è così riguardoso che non nomina Dio e usa il solito passivo: “I tuoi peccati ti sono perdonati”. Nella loro reazione gli scribi usano invece la parola “Dio”. Questo contesto illustra bene l’uso attento che si faceva della parola “Dio”. Yeshùa, data la situazione, usa il passivo. Gli scribi, orgogliosi di esaltare Dio, lo menzionano. E stiamo parlando solo della parola “Dio”, non del tetragramma!  
  Quando Yeshùa si rivolgeva a Dio in preghiera, lo invocava non come “Geova”, ma sempre come “Padre”. Adopera questo termine ben sei volte nella sola preghiera finale con i discepoli.

Gv 17 Gesù disse queste cose, e, alzati gli occhi al cielo, disse: “Padre, l’ora è venuta; glorifica il tuo figlio, affinché il figlio glorifichi te, 2 secondo che gli hai dato autorità sopra ogni carne, affinché, in quanto all’intero [numero] di quelli che gli hai dato, egli dia loro vita eterna. 3 Questo significa vita eterna, che acquistino conoscenza di te, il solo vero Dio, e di colui che tu hai mandato, Gesù Cristo. 4 Io ti ho glorificato sulla terra, avendo finito l’opera che mi hai dato da fare. 5 E ora, Padre, glorificami presso te stesso con la gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse. 6 “Ho reso manifesto il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo. Erano tuoi, e tu li hai dati a me, ed essi hanno osservato la tua parola. 7 Ora hanno conosciuto che tutte le cose che mi hai dato sono da te; 8 perché le parole che hai dato a me io le ho date a loro, ed essi le hanno ricevute e hanno certamente conosciuto che sono uscito come tuo rappresentante, e hanno creduto che tu mi hai mandato. 9 Io prego per loro; non prego per il mondo, ma riguardo a quelli che mi hai dato; perché sono tuoi, 10 e tutte le cose mie sono tue e le cose tue sono mie, ed io sono stato glorificato fra loro. 11 “E io non sono più nel mondo, ma essi sono nel mondo e io vengo a te. Padre santo, vigila su di loro a motivo del tuo nome che tu mi hai dato, affinché siano uno come lo siamo noi. 12 Quando ero con loro io vigilavo su di loro a motivo del tuo nome che tu mi hai dato; e io li ho custoditi, e nessuno d’essi è distrutto tranne il figlio della distruzione, affinché la scrittura si adempisse. 13 Ma ora vengo a te, e dico queste cose nel mondo affinché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia. 14 Io ho dato loro la tua parola, ma il mondo li ha odiati, perché non fanno parte del mondo come io non faccio parte del mondo. 15 “Io ti prego, non di toglierli dal mondo, ma di vigilare su di loro a causa del malvagio. 16 Essi non fanno parte del mondo come io non faccio parte del mondo. 17 Santificali per mezzo della verità; la tua parola è verità. 18 Come tu hai mandato me nel mondo, anch’io ho mandato loro nel mondo. 19 E io mi santifico in loro favore, affinché anche loro siano santificati per mezzo della verità. 20 “Prego non solo per questi, ma anche per quelli che riporranno fede in me per mezzo della loro parola; 21 affinché siano tutti uno, come tu, Padre, sei unito a me ed io sono unito a te, anche loro siano uniti a noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. 22 E ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno. 23 Io unito a loro e tu unito a me, affinché siano resi perfetti nell’unità, perché il mondo abbia la conoscenza che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me. 24 Padre, in quanto a ciò che mi hai dato, desidero che, dove sono io, anche loro siano con me, affinché contemplino la mia gloria che tu mi hai dato, poiché tu mi hai amato prima della fondazione del mondo. 25 Padre giusto, in realtà il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto, e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato. 26 E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, affinché l’amore col quale mi hai amato sia in loro e io unito a loro”.
    
  Perfino nella Traduzione del Nuovo Mondo delle Sacre Scritture non si dice mai che Yeshùa si sia rivolto al Padre chiamandolo “Geova”. Come osserva C. Savasta: “Gesù evita accuratamente di pronunziare il nome divino. Infatti, ad esempio, dinanzi al sinedrio, al sommo sacerdote che gli chiede se fosse lui «il Cristo, il Figlio del Benedetto», Gesù risponde (Mc 14,61-62; cf. Mt 26,63-64): «... vedrete il Figlio dell’Uomo seduto alla destra della Potenza...», invece che «alla destra di JHWH» del Salmo 110,1, qui citato assieme a Dn 7,14, adeguandosi così all’uso ebraico di astenersi dal pronunziare il nome JHWH, come aveva fatto appunto il sommo sacerdote che lo interrogava, e questo proprio nell’occasione più adatta per dissociarsi pubblicamente da quest’uso, se non si fosse a sua volta conformato a esso. E’ del tutto improbabile quindi che egli lo pronunziasse in altre occasioni” (Il Nome Divino nel NT, in Rivista Biblica n. 1/1998, pag. 90; corsivo e maiuscole sono dell’autore).
  Perciò, è evidente che quando in preghiera disse: “Padre nostro [che sei] nei cieli, sia santificato il tuo nome” (Mt 6:9), il termine “nome” fu usato in un senso più profondo, più ampio, per intendere la Persona stessa. Se, come sostiene la Watchtower, Yeshùa intendeva che fosse menzionato il Nome, perché non lo fece mai? Quale occasione più adatta di quella? Eppure c’è la totale assenza dell’appellativo “Geova” non solo nelle preghiere ma in tutte le parole di Yeshùa, perfino in TNM.      “Signore, insegnaci a pregare” (Lc 11:1). E Yeshùa ce lo insegnò. Secondo la Watchtower Yeshùa avrebbe dovuto insegnarci a rivolgersi a “Geova Dio”. Perlomeno avrebbe comunque dovuto includere quel nome nella preghiera. Invece, egli ci insegnò a seguire il suo esempio, invocando il “Padre”.      
  La notte prima della sua morte, sia parlando direttamente con i discepoli sia nella lunga preghiera che fece, Yeshùa parlò del “nome” di Dio per quattro volte. Eppure, per tutta la notte, sia nei consigli che nell'incoraggiamento ai discepoli, sia in preghiera, non troviamo un solo caso in cui si faccia uso del nome “Geova”, neppure in TNM. Invece, troviamo che Yeshùa adoperò significativamente l'appellativo “Padre” per circa cinquanta volte! Il giorno seguente, in punto di morte, non invocò il nome “Geova”, ma disse: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27:46). Le ultime parole della sua vita terrena furono: “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito” (Lc 23:46). “Detto questo, spirò”.      
  Come discepoli di Yeshùa, quale esempio dovremmo dunque seguire? Quello di una denominazione religiosa americana del ventesimo secolo o quello che ci diede il Figlio di Dio nel momento più cruciale della sua vita e più cruciale per il destino di tutta l’umanità?     


Noi e il nome divino

  Essere consapevoli di tutto questo ci è tre volte di aiuto. È di aiuto per una lettura più illuminata di tante frasi o parabole dei quattro vangeli, per sapervi avvertire il nome divino anche là dove non è esplicito e visibile a prima vista. In secondo luogo ci è utile per conoscere meglio gli ebrei, da sempre profondamente interessati al nome divino, e per meglio conoscere poi i Testimoni di Geova che ad esso si sono interessati dal 1879, quando ancora non si chiamavano così. In terzo luogo, soprattutto, ci è di aiuto per pensare Dio e per rapportarci con lui. Anzitutto per pensare Dio come mistero grande.      
  Yeshùa, come tutti i giudei del suo tempo, sostituiva spesso la parola “Dio” con “Cielo”, “Potenza”, “Re”, “Gran Re”, “Padre”, “Signore” e con un passivo che, senza nominarlo, di Dio diceva la presenza attiva ed efficace.      Per rapportarci con Dio, non pretenderemo di legittimare con il suo nome ciò che non è conforme alla verità della sua parola.      Il peccato più grave commesso nel secolo 20° contro il comandamento di “non nominare il nome di Dio invano” è stato quello di un pazzo diabolico di nome Adolf Hitler, che faceva scrivere sulle insegne dei suoi eserciti e sulle cinture delle sue SS il motto: “Gott mit uns” (“Dio con noi”). Un brivido ci percorre, pensando che “Dio con noi” è il significato di Emanuele, uno dei titoli di Yeshùa (Mt 1:23). L’uso del suo nome come legittimazione del razzismo, del militarismo e dello sterminio di milioni di innocenti è la più orribile delle bestemmie. Il dio di Hitler era evidentemente un altro dio (2Cor 4:4), e quel dio, quello sì, era sicuramente con lui.


Dovremmo pronunciare il nome di Dio?      

  Contrariamente all’atteggiamento di Yeshùa, che fu talmente riguardoso verso il nome “Dio” (che non era neppure il tetragramma) da usare i giri di parole giudaici per menzionarlo, presso i Testimoni di Geova c’è – al contrario – l’idea che addirittura il tetragramma vada usato in continuazione. La pubblicazione Ci sarà mai un mondo senza guerre? vede la necessità “di stabilire una relazione con Dio, il nostro Padre e Creatore celeste, una relazione così personale da poterlo chiamare per nome” (pag. 19, §3).      
  Yeshùa fu colui che come uomo ebbe la più intima e personale relazione con Dio. Ma stava attento nel rivolgersi a lui. Qui si sta parlando di rispetto per Dio. E sicuramente Dio è colui che merita il massimo rispetto. Yeshùa lo chiamava “Padre”. Quale figlio oggi, anche ateo o non credente, oserebbe rivolgersi al proprio padre chiamandolo per nome? Si dirà che oggi ci sono bambini e bambine che chiamano il padre per nome. La cosa è non solo molto simpatica, ma fa anche tenerezza. E possiamo commuoverci sentendo una bambina che nel suo candore – forse con una fede che neppure ci sogniamo – prega forse così: “Dio, tu che sei mio amico, non fare morire il mio gattino”.  Ma qui stiamo parlando di persone un po’ più cresciute. Solo fino a qualche generazione fa i figli davano del voi ai genitori (i francesi lo danno ancora oggi rivolgendosi a Dio nelle preghiere). Oggi diamo del tu a nostro padre, però non è accettato che lo si chiami per nome. Dio è da meno? “Dio non è un uomo” (Nm 23:19). Dobbiamo stare alla sua presenza con “timore e tremore” (Flp 2:12).
  Come rivolgerci s Dio? Il termine “padre” ricorre nella Bibbia ebraica quasi esclusivamente (per circa 1180 volte) in senso profano. Solo raramente (15 volte) ricorre in senso spirituale. Allo stesso modo della Bibbia, anche la letteratura dell'antico giudaismo palestinese dimostra un chiaro riserbo nell'uso del termine “Padre” riferito a Dio.    
  Yeshùa ci ha invece insegnato a rivolgerci a Dio con l’intimo nome di “Padre” (Mt 6:9). Così lo chiamò anche Paolo (1Ts 3:11). Il credente che è in intimità con Dio usa addirittura il nome “Padre” nel senso di “Abba” (Mr 14:36). La forma אבא (abà) è diversa da אב (av), “Padre”. Abà (אבא), traslitterato nel testo greco di Mr con Ἀββά (abbà), era il nome usato dai bambini ebrei per rivolgersi al loro padre. Assomiglia molto al nostro “papà” o “babbo”. “Ora poiché voi siete figli, Dio ha mandato nei nostri cuori lo spirito del Figlio suo, che grida: ‘Abba, Padre!’” (Gal 4:6). – Rm 8:16.    TNM riporta forzatamente il nome “Geova” in 237 passi delle Scritture Greche senza alcuna ragionevole base. Eppure, perfino in presenza di quest'arbitrario inserimento di qualcosa che non compare in alcun antico manoscritto delle Scritture Greche, il riferimento a Dio come “Padre” è sicuramente prevalente: Dio è chiamato “Padre” 254 volte nelle Scritture Greche. E ciò senza dover ricorrere ad arbitrari inserimenti del termine ad opera dei traduttori. Il nome “Padre” è lì, scritto sotto ispirazione.      Dio dovrebbe essere per noi la persona con cui essere più in intimità. “Non c’è creazione che non sia manifesta alla sua vista, ma tutte le cose sono nude e apertamente esposte” alla vista di Dio, ma egli rimane pur sempre “colui al quale dobbiamo rendere conto” (Eb 4:13).
  “’Quando Geova divenne per me un intimo amico’, dice Jeff” (La Torre di Guardia del 1° agosto 2004, pag. 30). Forse Jeff, nel suo sincero e toccante trasporto, dovrebbe essere più riguardoso e più modesto, ed evitare di rivolgersi all’Onnipotente come “amico”. “Egli ti ha dichiarato, o uomo terreno, ciò che è buono . . . di essere modesto nel camminare col tuo Dio” (Mic 6:8).    
  Nella Scrittura si parla di un uomo solo che ebbe questo incredibile onore: “Abraamo mio amico” (Is 41:8). La relazione tutta particolare che Abraamo ebbe con Dio, tanto da meritarsi – lui solo – d’essere chiamato amico da Dio, la si coglierebbe meglio nella stupenda traduzione che si può fare del passo: “Abraamo, l’amico mio”. Fu un caso unico. Ma attenzione: fu Dio a chiamare amico Abraamo, non viceversa. Abraamo mai si permise di rivolgersi a Dio chiamandolo amico. Comunque, Yeshùa ci considera amici: “Vi ho chiamati amici, perché tutte le cose che ho udito dal Padre mio ve le ho fatte conoscere” (Gv 15:15).      
  Occorre rispetto per Dio. Questo rispetto si mostra anche nel modo in cui ci rivolgiamo a lui. Se poi, all’indebita confidenza che ci si prende nel chiamarlo per nome, si aggiunge anche il fatto che tale nome è con la massima certezza errato, il tutto rischia di suonare – anche se involontariamente – beffardo. E “Dio non è da beffeggiare”. – Gal 6:7.


Quale nome usare nel rivolgersi a Dio     

  Nelle relazioni familiari, di solito, non ci rivolgiamo a un padre chiamandolo per nome. Abitualmente ci si rivolge a lui in modo più intimo, chiamandolo “papà” o “babbo”. Gli altri familiari che non sono figli, gli amici e gli estranei devono limitarsi all'uso di appellativi più formali, riferendosi a lui con un nome proprio. Questa situazione, in un certo senso, illustra bene il rapporto di relazione tra i credenti e il rapporto di relazione dei credenti con Yeshùa e con Dio.
  Tra di loro i credenti – proprio come fanno i fratelli e le sorelle tra loro – si chiamano per nome. I credenti che ubbidiscono a quello che Yeshùa ha comandato sono definiti da lui suoi amici: “Voi siete miei amici se fate quello che vi comando” (Gv 15:14): lo chiamano quindi per nome. La congregazione di Yeshùa è definita nella Scrittura la sua sposa (Riv 21:2,9;22:17), e – come fa una moglie – lo chiama per nome.      
  Abraamo, per la sua fede incondizionata in Dio, fu perfino da lui chiamato – unico caso nella Bibbia – suo amico (Gc 2:23; cfr. Is 41:8). Come amico chiamava Dio per nome. Anche gli ebrei, come popolo appartenente a Dio, lo chiamavano per nome. E il loro rispetto fu tale che arrivarono perfino a evitare il suo nome. Proprio come noi non ci sentiremmo di chiamare per nome un re, ma ci rivolgemmo a lui come “sua maestà”, gli ebrei sentivano di doversi rivolgere a Dio come “Signore”. Così il tetragramma fu oscurato. Non contenti di ciò, evitarono poi perfino di nominare direttamente Dio, riferendosi a lui con espressioni che lo evocassero: “Cielo”, “Re”, “Potenza” e così via.      
  Yeshùa, figlio prediletto di Dio, usò con gli altri lo stesso modo di riferirsi a Dio, ma nella sua relazione personale con lui lo chiamava non certo per nome, ma lo chiamava “Padre”. E molto di più: non solo av (“Padre”), ma lo chiamava abà (“Papà”).      
  Yeshùa, con la sua ubbidienza a Dio fino alla morte, ci ha reso figli di Dio: “Voi non avete ricevuto uno spirito di schiavitù che causi di nuovo timore, ma avete ricevuto uno spirito di adozione come figli, mediante il quale spirito gridiamo: Abba” (Rm 8:15). Non lo chiamiamo per nome, come estranei o come schiavi, ma lo chiamiamo come figli: “Padre”.    Questo fatto chiarisce sicuramente perché avvenne nella primitiva congregazione dei discepoli di Yeshùa l'innegabile cambiamento dall'enfasi sul tetragramma al risalto sull’espressione “Padre”.      
  Yeshùa manifestò il proprio attaccamento alla parola “Padre” non solo quando pregò. Come si comprende dalla lettura dei Vangeli, in tutti i discorsi rivolti ai discepoli, Yeshùa si riferisce costantemente e principalmente a Dio come “Padre”.      
  Possiamo oggi correttamente asserire di conoscere il “nome” di Dio nel senso più profondo e autentico (quello biblico) solo grazie alla disponibilità e al profondo beneficio dell'intima relazione con il Padre, resa possibile dal Figlio.


Il tetragramma nelle Scritture Greche     

  “Recenti scoperte in Egitto e nel deserto della Giudea ci consentono di vedere con i nostri occhi l’uso del nome di Dio nei tempi precristiani. Queste scoperte sono significative per gli studi nel NT [Nuovo Testamento] in quanto costituiscono un’analogia letteraria con i più antichi documenti cristiani e possono spiegare in che modo gli autori del NT usarono il nome divino. Nelle pagine che seguono esporremo una teoria secondo cui il nome divino, יהוה (e possibili sue abbreviazioni), fu scritto in origine nel NT nelle citazioni e nelle parafrasi del VT [Vecchio Testamento] e secondo cui nel corso del tempo fu sostituito principalmente col surrogato κς [abbreviazione di Kỳrios, ‘Signore’]. Questa eliminazione del Tetragramma, a nostro avviso, creò una confusione nella mente dei primi cristiani gentili riguardo alla relazione fra il ‘Signore Dio’ e il ‘Signore Cristo’ che si riflette nella tradizione dei mss. del testo stesso del NT” (George Howard, dell’Università della Georgia, in Journal of Biblical Literature, vol. 96, 1977, pag. 63).
  Questa dichiarazione è riportata a pag. 1566 della TNM, all’appendice 1D. Il commento di TNM è: “Siamo d’accordo con quanto sopra, con una sola eccezione: non la consideriamo una ‘teoria’, bensì un’esposizione dei fatti storici su come furono trasmessi i manoscritti della Bibbia” (Ibidem).      
  Strano modo di procedere. L’eminente studioso, conscio dei limiti, definisce la sua “una teoria”. I direttori della Watchtower, senza presentare alcuna motivazione valida, la trasformano in certezza. Ma perché per G. Howard si tratta solo di “una teoria”? Per il semplice fatto che a tutt’oggi non è stato ritrovato un solo brandello di manoscritto che comprovi la sua supposizione. Noi, che come certezza abbiamo solo la Scrittura, in armonia con il pensiero del noto studioso continuiamo a ritenerla “una teoria”, sebbene interessante. Questa che è e rimane solo una teoria giustifica la Watchtower nell’introdurre il nome “Geova” nelle Scritture Greche? No. Per tre ragioni.
  1. Il traduttore si deve attenere ai manoscritti esistenti. Non può e non deve alterarli. Se questi manoscritti contengono κύριος (Kǘrios, “Signore”), deve tradurre “Signore”. Diversamente, la traduzione assume un altro nome: manipolazione. La manipolazione dei testi originali delle Scritture non dovrebbe essere consentita a nessuno. Chi lo fa si assume una grave responsabilità. Non si dimentichi che stiamo parlando della parola di Dio.
  2. Lo studioso G. Howard ipotizza la “teoria secondo cui il nome divino, יהוה (e possibili sue abbreviazioni), fu scritto in origine nel NT nelle citazioni e nelle parafrasi del VT” (Ibidem). Si noti molto bene cosa egli dice: “Il nome divino, יהוה (e possibili sue abbreviazioni)”. Quando dice “nome divino” specifica cosa intende e riporta il tetragramma. Ora, se TNM volesse prendere per buona la teoria, trasformando in fatto quella che è solo un’ipotesi, dovrebbe almeno mostrare una certa correttezza traducendo come da manoscritto, rendendo κύριος (Kǘrios) con “Signore” e, casomai, mettere a margine o in calce una nota che spieghi che lì si ipotizza il tetragramma. Perché è di questo che lo studioso parla: di tetragramma, che è cosa ben diversa da JeHoVaH che è l’alterazione del tetragramma volutamente creata dai masoreti per non far leggere proprio il tetragramma.
  3. TNM va ben oltre. E commette un’ulteriore scorrettezza. Non solo manipola il testo biblico, ma inserisce “Geova” anziché il tetragramma. Se si aggiunge il fatto che abbiamo la certezza che “Geova” è del tutto sbagliato, la cosa diventa ulteriormente grave.      
  L’inserimento arbitrario di “Geova” avviene in TNM per ben 237 volte. Si possono fare tutte le supposizioni che si voglioso, ma quando un traduttore si trova davanti al testo dei manoscritti, è questo che deve tradurre usando il dizionario e non le supposizioni.      
  Il testo delle Scritture Greche è il risultato dell’opera di valenti studiosi. Il semplice non deve pensare che qualcuno abbia trovato migliaia di anni fa un libro nascosto chissà dove con su scritto “Bibbia” e che questo tesoro letterario sia stato poi tramandato a noi. Sono invece stati trovati nel passato almeno 5000 manoscritti nel greco originale di quello che erroneamente è noto come “Nuovo Testamento”. Anche qui il semplice non deve pensare a circa 5000 copie del cosiddetto “Nuovo Testamento”. Si tratta di 5000 manoscritti ognuno dei quali contiene una parte più o meno estesa del testo complessivo. Molti contengono solo brandelli, qualche versetto. Gli originali non li abbiamo: a noi sono pervenute copie, copie delle copie e famiglie di copie. Quando parliamo di “originali” intendiamo questo. Il più antico di questi numerosi manoscritti è un frammento papiraceo di Gv, che è attualmente conservato nella Biblioteca John Rylands di Manchester, nel Regno Unito. È stato classificato con la sigla P52 ed è stato datato alla prima metà del 2° secolo, forse intorno al 125 E. V.. Ma questo pure è una copia. Il semplice non deve a questo punto sentirsi disilluso. Infatti, quella che abbiamo è un’abbondantissima documentazione. Per capire, si pensi che il famoso De Bello Gallico di Cesare, composto tra il 58 e il 50 a. E. V., è giunto a noi solo in nove o dieci manoscritti leggibili, e il più antico di essi è di circa 900 anni posteriore al periodo di Cesare. Questo vale per tutti gli altri classici greci e latini. Nel caso della Bibbia siamo dunque di fronte a qualcosa che ha del miracoloso.  
  Si può immaginare il paziente lavoro che gli studiosi dovettero compiere per mettere insieme brandelli e parti di manoscritti per ricostruire il testo originale. Il testo delle Scritture Greche così recuperato prese il nome di testo critico. Fu Desiderius Erasmus, un famoso umanista olandese, più noto come Erasmo da Rotterdam, a produrre la prima edizione di un testo greco standard, nel 16° secolo. Nel 1551 il parigino Robert Estienne vi introdusse il sistema della divisione in capitoli e versetti, che è ancora l’attuale divisione. Nel frattempo gli studiosi avevano migliorato il testo greco standard, e la terza edizione del testo greco di Estienne divenne il textus receptus (che, in latino, significa “testo comunemente accettato”). In seguito diversi grecisti produssero testi sempre più perfezionati. Tra questi, il testo critico greco che ottenne più consensi fu quello prodotto nel 1881 da due studiosi dell’Università di Cambridge, Brooke Foss Westcott e Fenton John Anthony Hort. Questo testo critico è ancora noto come testo di Westcott e Hort. Un altro buon testo critico è il testo greco di Nestle.
  Nel testo critico il tetragramma non compare mai. Figurarsi, quindi, se si può inserivi il tetragramma camuffato dai masoreti, cioè JeHoVaH. Farlo equivale a manipolazione del testo originale. La Watchtower si giustifica così: “Gli scribi tolsero il Tetragramma . . . dalle Scritture Greche Cristiane e lo sostituirono con Kỳrios, ‘Signore’ o Theòs, ‘Dio” (TNM, pag. 1566, appendice 1D).      
  Ora si impone una semplice riflessione. È mai possibile che tutte le comunità dei discepoli dei tempi antichi che ci hanno lasciato questi circa 5000 manoscritti abbiamo concordato d’introdurre la stessa modifica in tutti i manoscritti? Dato che è documentata la grande venerazione che esse avevano per gli scritti sacri, questa ipotesi non ci appare possibile. Un’altra domanda che ci viene è questa: se esistevano alcuni manoscritti che contenevano il tetragramma (e stiamo dicendo tetragramma, non JeHoVaH), è mai possibile che ci siano giunti solo quelli modificati e che gli altri siano andati tutti persi? Sembra di avere a che fare con la teoria dell’evoluzione, che si arrampica sui vetri delle ipotesi.      La realtà è che non esiste il minimo frammento di manoscritto delle Scritture Greche che contenga il tetragramma. Neppure un brandello.


L’abuso di una teoria che è solo un’ipotesi       

  Lo abbiamo letto nelle parole stesse stampate nero su bianco dalla Watchtower: “Non la consideriamo una ‘teoria’, bensì un’esposizione dei fatti storici su come furono trasmessi i manoscritti della Bibbia” (Ibidem). Mentre l’autore dell’ipotesi che abbiamo discusso al sottotitolo precedente precisa lui stesso che si tratta di “teoria”, il direttivo d’oltreoceano della Watchtower se ne appropria citandola come una prova di fatti storici.      
  Cosa curiosa, lo stesso direttivo ammette che “oggi, a parte alcuni frammenti della primitiva Settanta greca in cui il nome sacro è conservato in ebraico, solo il testo ebraico ha ritenuto questo importantissimo nome nella sua forma originale di quattro lettere, יהוה (YHWH), la cui esatta pronuncia non è stata preservata” (TNM, pag. 1563). Come mai, allora, se l'uso del “nome” divino dev'essere - a detta del direttivo dei Testimoni di Geova - un requisito essenziale per identificare l'unica vera religione, nei manoscritti delle Scritture Greche questo “nome” divino non compare mai?
  “Perché quando furono fatte quelle copie (dal III secolo E.V. in poi) il testo originale degli scritti degli apostoli e dei discepoli era già stato alterato. Quindi copisti successivi devono aver sostituito il nome divino nella forma del Tetragramma con Kỳrios e Theòs” (Perspicacia nello studio delle Scritture Vol. I, pag. 1028). Questa risposta è decisamente problematica perché induce alla conclusione che tutti i manoscritti di quello che è erroneamente chiamato Nuovo Testamento, tutti studiati dagli specialisti, sarebbero stati proditoriamente manipolati da scribi infedeli allo scopo di cancellare ogni menzione del “nome” divino. Ma i problemi aumentano se si tiene conto di quanto La Torre di Guardia del 1° ottobre 1997 insinua: “La natura e la vastità dei cambiamenti dimostrano chiaramente che c’era lo zampino di qualcuno [leggi: satana]” (pag. 14, § 12). Se questa tesi fosse attendibile, gli stessi Testimoni di Geova dovrebbero conseguentemente domandarsi: quale affidabilità può offrire un testo che ha subìto alterazioni così radicali? In quali altri brani biblici lo ‘zampino di satana’ ha compiuto manomissioni così diaboliche? In sostanza: quanto è attendibile il messaggio di Dio che viene fuori dalle Scritture Greche così ‘vastamente’ manomesse? Che dire poi della figura di Yeshùa? Se lo zampino diabolico di satana è andato ad incidere su un nome, che avrà mai combinato con il resto? Non osiamo pensare al resto di tutta la Bibbia.      
  Personalmente, però, crediamo che Dio sappia preservare la sua parola scritta. Comunque, la tesi del direttivo dei Testimoni di Geova ci obbliga a fare una riflessione. E questa porta come conseguenza logica a sole due possibilità:
1. Il testo delle Scritture Greche è stato manipolato da scribi diabolicamente suggestionati che hanno eliminato ogni riferimento al “nome” divino. Dal che si deve necessariamente dedurre che Dio non avrebbe esercitato alcuna forma di protezione per salvaguardare l'integrità del suo “nome”.
2. Le Scritture Greche non hanno subìto alcuna alterazione sostanzialmente rilevante. Il che dimostra la vigile cura di Dio nella preservazione della Bibbia.
  Siamo decisamente e convintamene per la seconda possibilità. Quanto alla prima ipotesi, siamo perplessi per il fatto che la stessa Watchtower che la ha avanzata dica poi che “la preservazione e la traduzione delle Scritture ispirate sono avvenute per divina provvidenza” (Ibidem, pag. 11, § 4). Ci sembra una posizione molto incoerente e la perplessità aumenta di fronte a questa affermazione (che, tra parentesi, condividiamo in pieno): “Qualunque versione delle Scritture Cristiane possediate, non avete motivo di dubitare che il testo greco su cui si basa rappresenti con notevole fedeltà ciò che scrissero in origine gli autori ispirati di questi libri biblici. Sebbene siano passati quasi 2.000 anni dal tempo in cui fu composto in origine, il testo greco delle Scritture Cristiane è una meraviglia di trasmissione accurata” (La Torre di Guardia del 1° ottobre 1977, pag. 603). Ma allora come spiegare che la “divina provvidenza”, che ha fatto sì che ci fosse la meravigliosa “trasmissione accurata”, avrebbe permesso l’omissione del tetragramma in tutti e 5000 gli antichi manoscritti? “Logicamente [Dio] avrebbe fatto in modo che la sua Parola fosse tramandata fedelmente fino ai nostri giorni” (Svegliatevi! del 22 luglio 1985, pag. 21).      
  Crediamo che si debba ripensare la legittimità dell'eccezionale importanza attribuita al tetragramma da parte dei Testimoni di Geova. È un fatto che Dio è l’autore delle Scritture Greche, che fanno parte della sua parola scritta, la Bibbia. È un fatto che esse sono state preservate per suo volere. È un fatto che esse ci sono giunte in modo accurato sotto la sua divina guida. Ed è un fatto che in esse il tetragramma non compare.      
  Ne consegue che la conoscenza di un particolare “nome” divino non costituisce un requisito essenziale per individuare la pura forma di adorazione approvata da Dio. Se poi si aggiunge che il “nome” tanto innalzato non è affatto il sacro tetragramma ma la forma spuria JeHoVaH creata ad arte dai masoreti proprio per celare il tetragramma… beh, il tutto diventa molto triste.    
  La conoscenza del “nome” non va intesa all’occidentale, come fa l’americana Watchtower. Di coloro che già conoscevano (nel senso occidentale) il “nome” e lo usavano pure, Dio dice: “Rispetto al mio nome יהוה non mi feci conoscere da loro” (Es 6:3). Conoscere il “nome” di Dio significa ben altro che accanirsi sulla forma volutamente alterata dai masoreti.
  L’ipotesi avanzata dallo studioso George Howard, da lui stesso definita una “teoria” e trasformata in fatto storico solo dalla Watchtower, rimane solo un’ipotesi per due ragioni:      
  1. Nessuno dei supposti manoscritti greci che avrebbero dovuto contenere il tetragramma è stato mai ritrovato; proprio come il famoso “anello mancante” degli evoluzionisti.      
  2. Nessuno degli oltre 5.000 manoscritti nel greco originale contiene il tetragramma.      
  Nonostante questo, TNM inserisce forzatamente – definendolo “ripristino” – il nome “Geova” in 237 luoghi delle Scritture Greche. Si noti bene: non il tetragramma, ma la forma spuria creata a bella posta dai masoreti per tener nascosto proprio il tetragramma. Comunque, l’elevato numero di inserimenti ci fa pensare che sia stato inserito ogni volta che era possibile. Dal che ne consegue che dove non lo hanno inserito non era proprio possibile inserirlo. Tenuto conto dell’accanimento nell’inserirlo, quelle sezioni in cui non lo hanno inserito attirano la nostra attenzione. Il fatto è che non si tratta semplicemente di passi qua e là in cui manca. La traduzione italiana della forma camuffata del tetragramma non è stata inserita in:
- Filippesi
- 1 Timoteo
- Tito
- Filemone
- 1 Giovanni
- 2 Giovanni
- 3 Giovanni    
  Si tratta di ben sette interi libri delle Scritture Greche. Ammesso e non concesso che il tetragramma (quello vero) fosse presente nelle Scritture Greche, come mai Paolo non lo avrebbe mai usato in ben quattro sue lettere e Giovanni in nessuna delle sue tre lettere?      
  Per ciò che riguarda la teoria del professor G. Howard, c’è da menzionare il comportamento scorretto degli editori di TNM nel citarlo. Gli editori, infatti, omettono sistematicamente di far rilevare ai propri lettori che l'articolo di Howard è pieno di inviti alla cautela, col ricorso ad espressioni del tipo: “questa è solo una teoria”, “probabilmente”, “è possibile che”, “se la nostra teoria è corretta”, “la teoria che proponiamo”, “se ipotizziamo”, e così via. Vengono ritagliate dal contesto solo le parole che servono. Contrariamente a quanto detto prudentemente da Howard, l’editore americano ritiene le sue riflessioni “un'esposizione dei fatti storici su come furono trasmessi i manoscritti della Bibbia” (TNM, pag. 1566). Infine viene taciuto che la tesi del prof. Howard propone l'uso del tetragramma solo nelle citazioni dalle Scritture Ebraiche. La Traduzione del Nuovo Mondo delle Sacre Scritture invece introduce non il tetragramma ma la forma alterata dai masoreti anche in passi in cui non compare alcuna citazione dalle Scritture Ebraiche. Così facendo, va ben oltre l’ipotesi proposta da Howard.
  La pretesa della Watchtower secondo cui gli apostoli e gli altri autori sacri del 1° secolo avrebbero incluso il tetragramma nei propri scritti è semplicemente la forzatura di una teoria, contro il pensiero stesso del suo autore. È un'ipotesi speculativa che cozza contro il peso dell'evidenza storica e documentale. Una delle due più antiche copie degli scritti apostolici finora ritrovate è un codice papiraceo noto come Papiro Chester Beatty n. 2, classificato come P46. Esso contiene frammenti di otto lettere dell'apostolo Paolo (Rm, 1 e 2Cor, Ef, Gal, Flp, Col e 1Ts) ed Eb. In passato la datazione di questo codice è stata a lungo fatta risalire intorno al 200 E. V.. Tuttavia, ora sussistono valide ragioni per retrodatarlo. Nel 1988 il prof. Y. K. Kim ha accuratamente documentato che il codice dovrebbe essere retrodatato alla seconda metà del 1° secolo, forse addirittura al regno dell'imperatore Domiziano, cioè a prima dell'81 E. V.. In ogni caso, le prove addotte portano la collezione papiracea a soli pochi decenni di distanza dalla redazione degli scritti originali (Y. K. Kim, Paleographic Dating of P46 to the Later First Century, in Biblica, vol. 69, fascicolo 2, 1988, pagg. 248-257). Ora, nei libri biblici presenti nel P46, si dovrebbe trovare – stando alla forzatura della Watchtower fatta sull’ipotesi di Howard - il tetragramma in vari punti. E precisamente nei seguenti punti (che sono poi quelli in cui il nome “Geova” è stato inserito in TNM in sostituzione della presunta presenza del tetragramma):

Rm 1Cor 2Cor Gal
4:3, 4:8, 9:28, 9:29, 10:13, 10:16, 11:3, 11:34, 12:11, 12:19, 14:4, 14:6, 14:6, 14:6,     14:8, 14:8, 14:8, 14:11, 15:11 1:31, 2:16, 3:20, 4:4, 4:19, 7:17, 10:9+, 10:21, 10:21, 10:22, 10:26, 11:32, 14:21, 16:7, 16:10 3:16, 3:17, 3:17, 3:18, 3:18, 6:17, 6:18, 8:21, 10:17, 10:18 3:6
Ef Col 1Ts Eb
2:21, 5:17, 5:19, 6:4, 6:7, 6:8 1:10, 3:13, 3:16, 3:22, 3:23, 3:24 1:8, 4:6, 4:15, 5:2 2:13, 7:21, 8:2, 8:8, 8:9, 8:10, 8:11, 10:16, 10:30, 12:5, 12:6, 13:6
    
  Qual è la realtà dei fatti? In quest'antichissimo codice non si trova un solo caso in cui compaia il tetragramma o una sua forma abbreviata. In questi libri biblici vengono fatte numerose citazioni dalle Scritture Ebraiche, rifacendosi al testo della LXX, tuttavia in nessuna di queste citazioni si riporta il tetragramma. Le citazioni seguono la prassi di sostituire il tetragramma con le parole greche kǘrios (“Signore”) o theòs (“Dio”). Come avrebbe reagito il prof. Howard a questa scoperta? Non dobbiamo far ricorso all’immaginazione. Lo sappiamo. Quando il ricercatore svedese Rud Persson inviò al prof. Howard una copia del materiale pubblicato dal prof. Kim a proposito della retrodatazione del codice papiraceo P46, il prof. Howard rispose: “Ciò indebolisce la mia teoria”. Questa si chiama correttezza e obiettività.   
  Contro l’assurda pretesa di “ripristinare” un tetragramma (per di più nella forma alterata dai masoreti!) che tutte le documentazioni storiche dimostrano non esserci mai stato nelle Scritture Greche, facciamo anche un’altra considerazione. L’attento lettore della Scrittura può accorgersi di ciò che gli studiosi già sanno: leggendo le Scritture Greche, troviamo a volte delle citazioni dalle Scritture Ebraiche, che presentano differenze rispetto alla fonte citata. Come si spiegano queste differenze? Lo stesso direttivo dei Testimoni di Geova ammette: “Ogni tanto le citazioni differiscono sia dal testo ebraico che dal testo greco che ora abbiamo. Alcune variazioni possono essere dovute al fatto che lo scrittore citava a memoria. O i cambiamenti possono essere stati intenzionali . . . Gli scrittori sostituirono ogni tanto parole o frasi sinonime . . . Talvolta i versetti delle Scritture Ebraiche furono parafrasati nelle Scritture Greche Cristiane” (Svegliatevi! del 22 luglio1969, pagg. 28-29). La spiegazione ci sembra più che ragionevole. Ma se gli scrittori stessi delle Scritture Greche si presero questa libertà, come si può assecondare la pretesa di uniformare tutte le citazioni dalle Scritture Ebraiche, fatte da quegli autori ispirati, includendovi il tetragramma dove compariva nell'originale ebraico? È evidente che l'ipotesi degli editori di TNM presuppone che tutti gli scrittori delle Scritture Greche si sarebbero attenuti scrupolosamente a una trascrizione fedele dei versetti citati dalle Scritture Ebraiche contenenti il tetragramma. Ma questa presunzione è smentita dal comportamento degli stessi scrittori ispirati. Ciò si evince anche da altre evidenze testuali.
  Infatti, qualche tempo fa è stato dato ampio risalto alle scoperte del prof. Thiede, un rinomato papirologo, il quale ha dimostrato che il Vangelo di Matteo fu scritto a distanza di una sola generazione dalla morte di Yeshùa o, addirittura, prima. Tale conclusione si basa su una rivalutazione della datazione del Papiro Magdalen (P64), che contiene tre frammenti del capitolo 26 di Mt. In base agli studi di Thiede, tale papiro risale alla metà del 1° secolo E. V.. Una delle caratteristiche peculiari del Papiro Magdalen è la frequenza dei cosiddetti “nomina sacra” (Mt 26:10,22,31), che rappresentano delle abbreviazioni delle parole greche “Signore” e “Gesù”. Tali abbreviazioni divennero molto popolari tra i primi discepoli: abitualmente venivano usate la prima e l'ultima lettera di una parola. Per capirci, avveniva come facciamo noi quando abbreviamo – ad esempio - il termine “dottor” con “dr”. Pertanto, il Papiro Magdalen è la prova che, come scrive Thiede, “quasi d'un solo colpo, all'inizio della seconda fase della trasmissione, cioè la fase del codice, i nomina sacra cominciarono a essere abbreviati nei papiri cristiani”. Ovviamente, se il tetragramma fosse stato inserito inizialmente nel testo originale del Vangelo di Matteo, redatto al più presto verso il 40 E. V., in segno di pedissequa fedeltà al testo delle Scritture Ebraiche - come sostiene il direttivo dei Testimoni di Geova - appare, a dir poco, anomalo che per i cosiddetti nomina sacra possa essere stato adottato così presto un sistema di abbreviazioni fin dalle primissime copie (come nel caso del Papiro di Magdalen), forse addirittura al tempo in cui alcuni apostoli erano ancora in vita, se accettiamo la datazione di Thiede. Invece, il ricorso così precoce a un articolato sistema di codificazione rappresenta un'ulteriore prova dell'autonomia degli scrittori delle Scritture Greche. In definitiva, mentre è lecito avanzare l'ipotesi, per quanto improbabile, di un'eventuale presenza del tetragramma nelle Scritture Greche originali, sicuramente non è lecito alterarne il testo sulla base di una semplice ipotesi, peraltro molto improbabile e contro tutta l’evidenza. Perdendo di vista il ruolo del traduttore, la Watchtower si è sostituita all'Autore.
  È il caso di rammentare ai traduttori di TNM quanto da essi stessi dichiarato: “L’azione più indegna che i traduttori moderni compiono nei confronti del divino Autore delle Sacre Scritture è quella di togliere o nascondere il suo caratteristico nome personale. In realtà il suo nome ricorre nel testo ebraico 6.828 volte nella forma יהוה (YHWH o JHVH)” (TNM, pag. 1563). Già. Nella Scrittura il Nome ricorre migliaia di volte “nella forma יהוה”. E “l’azione più indegna che i traduttori moderni compiono nei confronti del divino Autore delle Sacre Scritture è quella di togliere o nascondere il suo caratteristico nome personale” (Ibidem, l’evidenziazione è nostra). I masoreti lo nascosero, ma lo fecero con il massimo rispetto, lasciandolo intatto e camuffandolo con altre vocali che tutti sapevano non appartenenti al Nome. TNM lo nasconde del tutto, sostituendolo con la forma spuria JeHoVaH e dissacrandolo anziché lasciarlo intatto in tutta la sua sacralità.


Un fatto sorprendente     

  È ormai appurato da circa un secolo che i masoreti camuffarono il sacro tetragramma inserendovi le vocali di Adonày per non farlo pronunciare. Ne venne fuori il nome senza senso JeHoVaH. Ciò è riconosciuto perfino dalla Watchtower.    Ora, inserendo la forma JeHoVaH nella loro versione biblica, il direttivo della società americana non fa altro che continuare l’opera di quei masoreti. Con una differenza, però. Tristemente grave. I masoreti erano perfettamente consapevoli che la pronuncia di Adonày sostituiva quella vera del tetragramma. Il loro profondo rispetto per “il Nome” li portò a proteggerlo in modo indubbiamente eccessivo. Ma era rispetto. La società americana va ben oltre l’intento dei masoreti. Prende la loro forma spuria JeHoVaH per buona e insiste su di essa, inserendola addirittura nella Bibbia. Gli stessi masoreti ne sarebbero scandalizzati. E profondamente indignati. Per l’affronto blasfemo fatto al “Nome”. Ci sia consentito di poter sempre dire, con Paolo: “Abbiamo rinunciato alle cose subdole di cui c’è da vergognarsi, non camminando con astuzia, né adulterando la parola di Dio, ma rendendo la verità manifesta” (2Cor 4:2).


Conclusione     

  A conclusione, dopo aver svolto un esame scrupolo delle Scritture in merito al “nome”, proponiamo un ragionamento semplicemente logico. E ci avvaliamo dello stesso ragionamento che la Watchtower propone per la dottrina pagana della Trinità.      
  “Se la Trinità fosse vera, dovrebbe essere chiaramente e coerentemente esposta nella Bibbia. Perché? Perché, come affermarono gli apostoli, la Bibbia è il mezzo con cui Dio si è rivelato all’umanità. E dato che per adorare Dio in maniera accettevole dobbiamo conoscerlo, la Bibbia dovrebbe dirci chiaramente chi è” (Dovreste credere nella Trinità?, pag. 5).      
  Il ragionamento non fa una grinza. E lo appoggiamo in pieno. Non solo è logico, ma anche biblicamente corretto. Questo stesso ragionamento, vista la sua validità, ci sia consentito di applicarlo al “nome”:      
  Se il nome di Dio fosse “Geova”, se questo fosse vero, dovrebbe essere chiaramente e coerentemente esposto nella Bibbia e Dio non avrebbe permesso che fosse oscurato al punto che nessuno più conosce con esattezza la sua pronuncia. Perché? Perché, come affermarono gli apostoli, la Bibbia è il mezzo con cui Dio si è rivelato all’umanità. E dato che per adorare Dio in maniera accettevole dobbiamo conoscerlo, la Bibbia dovrebbe dirci chiaramente chi è.


APPENDICE 1
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Elohìm, El

   Elohìm - Dalla prima riga della Bibbia Dio si rivela all'uomo. In Gn 1:1 si fa conoscere come Creatore dell'universo: “In principio Dio creò i cieli e la terra”. La parola tradotta “Dio” è nel testo ebraico אֱלֹהִים (elohìm), senza articolo. La parola elohìm è il plurale di elòhah (אלוה), “dio”.  Il singolare elòhah può indicare il vero Dio: “Chi è Dio [אלוה (elòhah)] oltre a יהוה?” (Sl 18:31). Ma può indicare anche un dio straniero: “Agirà con efficacia contro i bastioni più fortificati, insieme a un dio [אלוה (elòhah)] straniero” (Dn 11:39).
    Il plurale elohìm o elohè (אלהי) può riferirsi a:

Il vero Dio “In principio Dio [אֱלֹהִים (elohìm)] creò i cieli e la terra”. – Gn 1:1.
Gli dèi pagani “[Yhvh] è più grande di tutti gli [altri] dèi [אֱלֹהִים (elohìm)]”. – Es 18:11.
Un singolo dio pagano “Chemos dio [אלהי (elohè)] di Moab”. – 1Re 11:33.
Una singola dea pagana “Astoret dea [אלהי (elohè)]  dei sidoni”. – 1Re 11:33.
Gli angeli “Lo facevi [l’uomo] anche un poco inferiore agli elohìm [אֱלֹהִים]”. – Sl 8:5; cfr. Eb 2:7: “Lo facesti un poco inferiore agli angeli”.
Alcuni uomini “Voi siete dèi [אֱלֹהִים (elohìm)]”. – Sl 82:6; cfr. Gv 10:35: “Se egli chiamò ‘dèi’ quelli…”.
Espressione del superlativo “[Tu sei] un principe divino [אֱלֹהִים (elohìm)]”. – Gn 23:6, Did. “Un fuoco divino [אֱלֹהִים (elohìm); “un fulmine”, PdS] è caduto dal cielo”. – Gb 1:16, CEI.
    
  Molte volte nelle Scritture Ebraiche il termine elohìm si trova anche preceduto dall’articolo determinativo ha: הָאֱלֹהִים (haelohìm), come in Gn 5:22. In modo particolare è solo il vero Dio che viene designato così. - Cfr. F. Zorell, Lexicon Hebraicum Veteris Testamenti, Roma, 1984, pag. 54; cfr. anche, come esempio, il testo ebraico di Dt 4:35;4:39; Gs 22:34; 2Sam 7:28; 1Re 8:60. Elohim lo si trova solo nella lingua ebraica e solo nella Bibbia. Deriva molto probabilmente da una radice che significa “potente”, “forte”.        
  Riferirsi al plurale elohìm per sostenere la dottrina trinitaria è del tutto fuori luogo. La cosa è talmente assurda che la dimostriamo qui con un solo esempio: Gn 1:1. La Bibbia cattolica CEI traduce: “In principio Dio creò il cielo e la terra”. “Dio” traduce il plurale אֱלֹהִים (elohìm). Il verbo “creò” è però al singolare: בָּרָא (barà). Che si tratti di un Dio unico lo mostra non solo il verbo, ma anche la traduzione greca che la LXX fece del plurale elohìm: ὁ θεὸς (o theòs), “il Dio”, al singolare. E con ciò è respinta anche la tesi dei binitari che vedono nel plurale elohìm sia Dio il padre che – secondo loro – Dio il figlio. Inoltre, ai trinitari e ai binitari non conviene insistere troppo su questo, perché così si rendono da soli politeisti. La parola elohìm significa, infatti, “dèi”. I trinitari non ammettono tre dèi, ma solo tre persone in un solo Dio. I binitari, che ammettono invece proprio due dèi, si autodefiniscono politeisti. Il verbo barà in tutta la Bibbia è associato solo a Dio. Questa associazione ricorre nella Bibbia 49 volte, ovvero il prodotto di 7x7. Il simbolismo numerico della Bibbia trova qui un grande significato.      
  Il plurale elohìm, inoltre, non è un plurale di maestà, come vorrebbero sostenere i Testimoni di Geova per contrastare la dottrina trinitaria. In ebraico come in greco tale plurale non esiste. Se lo fosse, avrebbe il verbo al plurale, come in latino. Inoltre, il plurale elohìm è applicato anche a un singolo dio pagano e a una singola dea pagana. Non vorremmo mica pensare che gli ebrei elogiassero la maestà di costoro, vero?

  El - La parola אל (el), significa “dio”. Nella lingua cananea e caldea “dio” si dice, appunto, el. In questa lingua il termine el (“dio”) identifica gli idoli pagani, fatti con mano d'uomo. La divinità suprema dei cananei era El, chiamato padre degli dèi e degli uomini. Il nome el fu quindi mutuato dalla lingua caldea. Ma proprio per questo fu usato dagli ebrei in modo tutto particolare per riferirsi al Dio unico. Vediamo come.
   Quando si tratta del Dio di Israele, il nome el al singolare non viene mai utilizzato da solo nelle Scritture Ebraiche.
   Presso il popolo d'Israele el assume un carattere completamente nuovo: da nome comune diventa nome proprio. E non solo. Il nome el è sempre accompagnato da un epiteto che sottolinea un aspetto o una virtù del solo, unico e vero Dio.

אֵל עֶלְיֹון El elyòn “Melchisedec . . . era sacerdote dell’Iddio Altissimo”. – Gn 14:18.
אֵל שַׁדַּי El shadày “Io sono Dio Onnipotente”. – Gn 17:1.
אֵל עֹולָם El olàm “l’Iddio di durata indefinita [“Iddio eterno”, Did]”. – Gn 21:33.
אֵל קַנָּא El qanà “Sono un Dio che esige esclusiva devozione [“Dio geloso”, NR]”. – Es 20:5.
אֵל חַי El chày “Conoscerete che un Dio vivente è in mezzo a voi”. – Gs 3:10.
    
  In tutti casi precedenti el identifica il Dio di Israele, essendo il termine seguito da un aggettivo che specifica una sua qualità.      
  Esiste di el anche la forma con articolo: ahèl (הָאֵל), “il Dio”. Questa forma si riferisce sempre al vero Dio. Le 32 volte in cui ricorre nel Testo Masoretico si trovano in Gn 31:13;35:1,3;46:3; Dt 7:9;10:17;33:26; 2Sam 22:31,33,48; Nee 1:5;9:32; Gb 13:8;21:14;22:17;31:28;33:6;34:10,37;40:9; Sl 18:30,32,47; 57:2;68:19,20;77:14;85:8; Is 5:16;42:5; Ger 32:18; Dn 9:4.      
  Esiste una forma plurale di el: elìm. Nel Testo Masoretico, elìm ricorre una sola volta ed è preceduto dall’articolo determinativo, in Es 15:11, e non si riferisce al vero Dio: “Chi fra gli dèi [אֵלִם (elìm); “gl'iddii” (Did)] è come te”?



APPENDICE 2
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Il tetragramma al tempo di Girolamo

  Girolamo lavorò alla sua traduzione dall’ebraico al latino delle Sacre Scritture all’incirca dal 390 al 405 della nostra era, producendo quella che è nota come Vulgata. Nel prologo ai libri di Sam e Re, egli scrisse: “In certi volumi greci troviamo tuttora il nome di Dio, il tetragramma, espresso in caratteri antichi”. In una lettera scritta da Roma nel 384 dice: “Il nono [nome di Dio] è composto di quattro lettere; lo si pensava anecfòneton, cioè ineffabile, e si scrive con queste lettere: iod, he, vau, he [יהוה]. Ma alcuni non l’hanno decifrato a motivo della rassomiglianza dei segni e quando lo hanno trovato nei libri greci l’hanno letto di solito PIPI [pipi]”. - Girolamo, Le lettere, Roma, 1961, vol. 1, pagg. 237, 238.
  Si noti che il tetragramma viene definito da Girolamo il “nono” nome di Dio. Chissà a quali otto dava la precedenza.
  Si noti che il tetragramma era talmente sconosciuto che fu confuso con una parola greca senza significato. Mostriamo il confronto, da cui si vede la somiglianza tra le lettere ebraiche e greche che diede adito all’equivoco:

Ebraico י ה ו ה YHVH
Greco Π Ι Π Ι PIPI

  Chi lesse così non sapeva neppure che l’ebraico si legge da destra a sinistra. Lo lesse, infatti, da sinistra a destra come il greco.



APPENDICE 3
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I due soli angeli chiamati per nome

  In tutta la Bibbia solo due angeli sono menzionati per nome.      
  L’angelo Gabriele apparve a Daniele (Dn 8:15-17;9:20-23), a Zaccaria (Lc 1:11-20) e a Miryàm (Lc 1:26,27). Si tratta di uno dei due soli angeli che dichiararono il loro nome. Il fatto è eccezionale. In Lc 1:19 Gabriele di identifica così: “Io sono Gabriele, che sto dinanzi a Dio”. Lo stare in piedi davanti a un’autorità denotava favore e riconoscimento ufficiale, dato che per entrare alla presenza di un re ci voleva un permesso (Pr 22:29; cfr. Lc 21:36). Si tratta quindi di una figura speciale. Gabriele, va chiarito, è un angelo, non un arcangelo (come erroneamente denominato dai cattolici): “L'angelo [greco ἄγγελος (ànghelos)]Gabriele”. – Lc 1:26, CEI, versione ufficiale della Chiesa Cattolica.
  Speciale è anche la posizione di Michele, l’altro solo angelo di cui si sa il nome. Si tratta di un arcangelo (Gda 9). Nelle parole rivolte a Daniele, Michele è chiamato “il vostro principe”, “il gran principe che sta a favore dei figli del tuo popolo” (Dn 1013,20,21;12:1). Dato questo titolo, c’è motivo di pensare che Michele fosse l’angelo che guidò gli israeliti nel deserto (Es 23:20,21,23;32:34;33:2). Questa conclusione sembra confermata dal fatto che “l’arcangelo Michele ebbe una controversia col Diavolo e disputava intorno al corpo di Mosè”. — Gda 9.    



APPENDICE 4
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Si replica un tentativo mal riuscito

  Il tentativo di sostenere una dottrina biblicamente insostenibile accusando i copisti di manipolazione del testo biblico fu già tentata dai cattolici riguardo al cosiddetto “comma giovanneo”. Se oggi leggiamo 1Gv 5:7,8 in una Bibbia cattolica, troviamo: “Tre sono quelli che rendono testimonianza: lo Spirito, l'acqua e il sangue, e questi tre sono concordi” (CEI). Ma nella traduzione di Giovanni Diodati, del 1607, si legge: “Perciocchè tre son quelli che testimoniano nel cielo: il Padre, e la Parola, e lo Spirito Santo; e questi tre sono una stessa cosa”, passo chiaramente trinitario. Molti misero in discussione l’inserimento di questo passo nella Bibbia, adducendo che il passo mancava nella maggior parte dei manoscritti. Oggi questo passo è stato giustamente tolto da tutte le Bibbie moderne.  
  Coloro che volevano mantenere a tutti i costi questo inserimento spurio nella Bibbia agirono come oggi fa la Watchtower con il tetragramma, ma in modo più sensato. Essi sostennero l'ipotesi dell'eliminazione del comma giovanneo da parte di Luciano di Antiochia, maestro di Ario. Il comma giovanneo – fecero notare - era presente nella Vetus Latina (2°-3° secolo), nel De Catholicae Ecclesiae Unitate di Cipriano (250 R. V.) e nel Liber Apologeticus di Priscilliano (fine 4° secolo). Citazioni letterali del comma si trovano poi in Eugenio di Cartagine (484), in Fulgenzio di Ruspe (527), in Cassiodoro (583), in Isidoro di Siviglia (636) e in Giacomo di Edessa (700). Il comma giovanneo compare quindi in ben nove manoscritti successivi all'anno mille (catalogati con i numeri 61, 88, ω110, 221, 429, 629, 636, 918, 2318) ed è letteralmente citato nel IV Concilio Lateranense (1215). Nel Medioevo la cristianità inserì infine il comma giovanneo nella Poliglotta Complutense (anno 1514), nella Vulgata Clementina (anno 1592) e nelle varie versioni del Textus Receptus (1516-1551).      
  Oggi sappiamo con certezza che il comma giovanneo era solo una nota esplicativa contenuta in alcuni manoscritti ed inglobata nel testo da qualche scriba sbadato, creativo o temerario. Il versetto manca, infatti, in tutti i codici più autorevoli (Sinaitico, Vaticano, Alessandrino), in tutte le copie più antiche della Vulgata latina (Codex Fuldensis e Codex Amiantinus), in tutte le versioni più famose (siriache, copte, Armena, Georgiana, Etiopica, Araba, Slava, Gotica) ed in quasi tutte le citazioni dei cosiddetti Padri della Chiesa. Il comma giovanneo non è poi citato da nessuno dei primi quattro Concili (Efeso nel 325, Costantinopoli nel 381, Efeso nel 431, Calcedonia nel 451), neppure nelle polemiche contro Ario. – Cfr. B. Metzger, A Textual Commentary on the Greek  New Testament, II° ed.,  pagg. 647-49.

  Di fatto, oggi, in tutte le Bibbie moderne, quell’inserimento spurio non si trova più.      
  Ora si paragonino le due manovre:  
  
■ Cattolici. Tentarono di sostenere che il comma giovanneo faceva parte delle Scritture Greche. Citarono molte prove
   a favore. Furono smentiti da prove più valide.     
■ Watchtower. Tenta di sostenere che il tetragramma faceva parte delle Scritture Greche. Citano solo un’ipotesi molto
   improbabile. Sono smentiti dalla mancanza del benché minimo brandello documentale.    

  Nel 20° secolo i progressi delle scienze bibliche e la crescente apertura della Chiesa Cattolica alle esigenze della ricerca e dell'esegesi hanno portato a tutto un fiorire di nuove traduzioni dai testi originali. Fu inevitabile la riscoperta del tetragramma.      
  La Watchtower, che era stata fondata alla fine del 19° secolo dall’americano C. T. Russel, ha ipotizzato la presenza del tetragramma nelle Scritture Greche, soprattutto nella primitiva presunta redazione aramaica del vangelo di Matteo (mai ritrovata). Il valore scientifico di tale ipotesi è stato però ridotto sensibilmente dalle pesanti accuse, rivolte a tutta l’antica comunità dei discepoli di Yeshùa, di aver dolosamente eliminato tetragramma da tutti i manoscritti, da tutti i papiri e da tutti i codici delle Scritture Greche. In verità, tali accuse non sono nuove e pare che risalgano addirittura ai masoreti della scuola di Ben Asher ed al filosofo ebreo Mosé Maimonide (1135-1204). Si tratta di alcune ipotesi, deduzioni ed induzioni che hanno permesso di costruire, nell'arco dei secoli, un vero e proprio teorema. I ragionamenti sono avvincenti e ben collegati, tanto che sembra che perfino I. Newton abbia prestato fede a tali illazioni (cfr. Keynes, L'uomo Newton, Bologna, 1978, pagg. 241-252).      
  La fragilità dei postulati di base è però facilmente riconoscibile, soprattutto se si considera che:     
► Il tetragramma non compare in neppure una delle oltre 5000 copie delle Scritture Greche;       
► Il tetragramma non compare neppure una volta nei codici più antichi: Chester Betty (P45,46,47), ed autorevoli:
    Sinaitico (א), Alessandrino (A), Vaticano (B);
► In base alle dichiarazioni di Girolamo, di Origène ed altri, si sa solo che fino al 4° secolo E. V. il tetragramma era
    ancora presente in uno sporadico numero di copie della versione greca dei Settanta delle Scritture Ebraiche;     
► Non si dispone di una sola testimonianza di autori, padri apostolici, padri della chiesa e scrittori ecclesiastici
    attestante la presenza del tetragramma in qualche copia delle Scritture Greche; alcuni scritti del 1°-2° secolo E. V.
    (come A Diogeneto, la Didaché, la lettera di Clemente Romano ai Corinzi, l’Epistola di Barnaba, il Pastore d’Erma,
    i frammenti di Papia di Gerapoli, le lettere di Ignazio di Antiochia, gli scritti di Policarpo di Smirne) non contengono
    il tetragramma né per le citazioni tratte dalle Scritture Greche né per i versetti richiamati dalle Scritture Ebraiche;     
► L’eventualità, peraltro finora non dimostrata, della presenza del tetragramma nella versione aramaica del Vangelo di
    Matteo (mai ritrovata), limitatamente alle citazioni tratte dalle Scritture Ebraiche, non proverebbe:
       1) né che il tetragramma fosse presente nelle altre Scritture che possediamo in greco,
       2) né che sia stato volutamente sradicato (con un lavoro tanto ciclopico quanto improbabile) da tutti i manoscritti,
           da tutti i papiri e da tutti i codici delle Scritture Greche,
       3) né che siano realmente esistite schiere di scribi infedeli, diabolicamente decisi a cancellare ogni traccia del
           tetragramma (e, poi, perché mai?);
► La pratica di occultare il tetragramma (occultare, non togliere) appartiene  all’ebraismo. A tal proposito si pensi:
       1) alla costante sostituzione del tetragramma nella lettura con il nome Adonay;
       2) alla distruzione di tutte le copie della Scrittura non conformi al testo ufficiale da parte dei masoreti dopo l’anno
            mille;
       3) alla distruzione delle scritture “cristiane” da parte degli ebrei narrata nel Talmùd (il Talmùd chiama i libri dei
           discepoli di Yeshùa Minim Aven Gilaion, cioè “libri eretici iniqui”; tutti gli studiosi del Talmùd erano d'accordo
           sul fatto che i libri che hanno a che fare con Yeshùa dovrebbero essere distrutti – cfr. Talmùd, Moed,
           Schabbath,  cap.116),
       4) alla eliminazione dei “nomi di Dio” (come Padre, Cielo, Re, Alto, Potenza e simili) dagli scritti cristiani (nello
           Schabàth sta scritto: “Rabbi Jose dice: ‘Nei giorni di festa i nomi della Divinità dovranno essere strappati dai
           libri dei cristiani e nascosti; ciò che rimane dovrà essere dato alle fiamme.’ Ma il rabbino Tarphon dice: ‘Se quei
           libri dovessero mai cadere nelle mie mani, io li brucerei assieme con i nomi della Divinità che contengono.’”
           - Moed, Schabbath,  cap.116);
       5) l'eliminazione dei nomi divini dagli scritti “cristiani” riportata dal Talmùd non prova la presenza del
           tetragramma. Il Talmùd parla, infatti, di “nomi della Divinità” (sono i nomi usati dai giudei e da Yeshùa per
           riferirsi a Dio senza nominarlo) e non di “tetragramma”.          
  È pertanto ragionevole pensare che in quasi tutte le versioni greche della Bibbia dei Settanta, da cui gli scrittori delle Scritture Greche hanno tratto le loro citazioni, il tetragramma non fosse presente. In rari casi lo era – ma riportato in caratteri paloebraici. Del resto, se si ammettesse anche solo per assurdo l'ipotesi di una massiccia falsificazione del testo biblico da parte dei copisti “cristiani”, tutta la parte della Bibbia scritta in greco (Scritture Greche) diventerebbe inattendibile e si potrebbe concludere che né la congregazione di Yeshùa né Dio stesso hanno esercitato alcuna forma di protezione per salvaguardare l’integrità delle Sacre Scritture. Il che va decisamente respinto. È quindi decisamente meglio che la Watchtower smetta di usare questo argomento.



APPENDICE 5
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Il vangelo aramaico di matteo

  Il Vangelo aramaico di Matteo – finora mai ritrovato – è un teorema fondato su indizi ragionevoli.      
  Sulla primitiva redazione aramaica del vangelo di Matteo esistono testimonianze autorevoli. Secondo Origène “Matteo pubblicò il suo scritto in lingua ebraica per i credenti venuti dal giudaismo” (Eusebio, Storia Ecclesiastica, VI, 25). Ireneo poi afferma che “Matteo, fra gli ebrei nella loro lingua, compose un vangelo scritto, mentre Pietro e Paolo evangelizzavano Roma e fondavano la chiesa” (Ireneo, Contro le eresie, III). Papiadi Gerapoli sostiene che “Matteo ordinò i detti del Signore in lingua ebraica” (Eusebio, Storia Ecclesiastica, III, 24).  Secondo Eusebio di Cesarea, Matteo, dopo aver predicato la buona notizia agli ebrei, compose nella lingua madre il proprio Vangelo prima di andare a predicare presso altri popoli (Eusebio, Storia Ecclesiastica, III, 24). Eusebio di Cesarea riporta anche la testimonianza del filosofo stoico Panteno che, convertitosi con grande entusiasmo alla fede in Yeshùa, decise di recarsi in India a predicare il Vangelo. Scoprì che il Vangelo di Matteo lo aveva preceduto, grazie all'opera dell'apostolo Bartolomeo che aveva lasciato là l'opera di Matteo scritta in ebraico (Eusebio, Storia Ecclesiastica, V, 10). Degna di nota è anche la testimonianza di Girolamo, secondo il quale “Matteo, detto anche Levi, da pubblicano fattosi apostolo, fu il primo in Giudea a scrivere il vangelo di Cristo nella lingua degli ebrei per quelli che si erano convertiti provenendo dal giudaismo . . . lo stesso originale si trova tuttora nella biblioteca di Cesarea . . . I nazarei che fanno uso di quel libro …. permisero anche a me di ricopiarlo” (Girolamo, Gli uomini illustri, III).
  Va detto che la moderna critica testuale ha comunque avanzato non pochi dubbi sull'esistenza di un vangelo di Matteo in lingua aramaica: secondo molti Girolamo non ebbe modo di consultare il vero originale ma il cosiddetto “vangelo apocrifo degli ebrei”, documento custodito dalla setta giudaico-cristiana degli ebioniti. Epifanio di Salamina distingue però chiaramente tra gli ebioniti apostati e filo-giudaici ed i nazareni cattolici (Contro tutte le eresie, XXIX-XXX). Giustino martire parla poi sia di una setta giudaico-cristiana, osservante la legge di Mosé ma ancora ortodossa e tollerante nei confronti dei gentili, sia di una setta deviante fedelissima alla legge di Mosé ma caduta nell'apostasia e nell'intolleranza verso i gentili (Dialogo con Trifone, XLVII). Della comunità degli ebioniti parlano poi diffusamente sia Ireneo (Contro le eresie, I, 26) sia Eusebio (Storia Ecclesiastica III, 27), ricordando come tale setta fosse molto ligia alle usanze ed alle leggi giudaiche e riconoscesse come ispirato solo il vangelo di Matteo, rigettando in blocco tutti gli insegnamenti e le lettere di Paolo. Sempre secondo Ireneo la comunità degli ebioniti rifiutava anche la nascita verginale di Cristo, non considerando “Gesù” figlio di Dio ma figlio di Giuseppe (Contro le eresie, III, 21). Per un'analisi critica dell'argomento consigliamo, comunque, di vedere J. Lagrange, Revue Biblique, 1922, pagg.161-181 e pagg. 327-349.



APPENDICE 6
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Il perché della non presenza del tetragramma nelle Scritture Greche

  Ogni persona ragionevole interessata agli studi biblici non può fare a meno di domandarsi le ragioni della non presenza del tetragramma nelle Scritture Greche. Dato che nelle Scritture Ebraiche compare quasi 7000 volte, quali sono le cause dell’assenza totale del tetragramma nelle Scritture Greche?      
  Escludendo l’ipotesi poco convincente e del tutto inverosimile di un complotto per una massiccia falsificazione del testo greco da parte degli scribi, sembra ragionevole pensare che ai tempi di Yeshùa il tetragramma fosse scomparso dalla Bibbia greca (LXX) ormai da secoli.      
  Qualche antica copia della Settanta tentò invero di mantenere il tetragramma, mentre limitati tentativi di reintroduzione del tetragramma si verificarono tra il 3° secolo a. E. V. ed il 1° secolo E. V. grazie ad alcune revisioni giudaizzanti.
  Se nella Bibbia dei Settanta il tetragramma era praticamente scomparso, è logico ed inevitabile pensare che fosse di conseguenza assente anche nelle Scritture Greche e negli scritti dei padri apostolici (che, non conoscendo l’ebraico, usavano esclusivamente la Bibbia greca).      
  Noi abbiamo un pensiero chiaro sul perché il tetragramma non è presente nelle Scritture Greche. Si pensi alla scomparsa dell’arca dell’alleanza: “In quei giorni - dice il Signore - non si parlerà più dell'arca dell'alleanza del Signore; nessuno ci penserà né se ne ricorderà; essa non sarà rimpianta né rifatta. In quel tempo chiameranno Gerusalemme trono del Signore; tutti i popoli vi si raduneranno nel nome del Signore e non seguiranno più la caparbietà del loro cuore malvagio”. – Ger 3:16,17, NR.  
  Questa scomparsa fu permessa da Dio perché voluta da lui in vista della nuova alleanza (2Cor 3:4-18; Ef 1:7) e dell’adozione filiale della nuova Israele (Gal 6:16): “Ma quando arrivò il pieno limite del tempo, Dio mandò il suo Figlio, che nacque da una donna e che nacque sotto la legge, perché liberasse mediante acquisto quelli che erano sotto la legge, affinché noi, a nostra volta, ricevessimo l’adozione come figli”. - Gal 4:4,5.
  Nella vecchia alleanza con Israele Dio voleva essere chiamato con un nome solenne e misterioso: “Colui che è” (יהוה). Oggi Dio ci permette di invocarlo con il nome intimo e familiare di Padre. “Siete tutti figli di Dio per mezzo della vostra fede in Cristo Gesù” (Gal 3:26). “Ora poiché voi siete figli, Dio ha mandato nei nostri cuori lo spirito del Figlio suo, che grida: ‘Abba, Padre!’”. - Gal 4:6.